Dai dei cubi a una scimmia e prima o poi inizierà a metterli uno sopra l’altro, a creare forme, a giocarci. Sembra che il risolvere puzzle, il creare soluzioni siano un bisogno, un qualcosa che siamo portati a fare come specie.
Non è strano quindi che ogni cultura del globo abbia sviluppato una propria cultura del gioco e non è strano nemmeno fare di questa uno strumento d’apprendimento.
Anche i videogiochi hanno lo stesso potenziale?
Sicuramente hanno delle precise peculiarità e molti differenti canali artistici tra pittura, scrittura, narrativa, musica, ma qui volevo sottolineare la loro caratteristica finale: l’interattività.
Nella storia di questo medium, molti sono i ruoli che il giocatore si è trovato a ricoprire. A volte con gameplay attivo, che implica il pieno controllo dei movimenti del nostro personaggio, altre volte in un ruolo più passivo, di supervisore, come nel caso dei giochi gestionali e strategici.
In questo caso ci troviamo in una posizione dalla quale possiamo osservare ogni dato disponibile per interpretare la situazione in corso e scegliere la nostra mossa di conseguenza, per poi raccoglierne i frutti o i problemi.
E ovviamente ci sono numerose gradazioni ed esperimenti del mezzo, che meriterebbero articoli dedicati.
Al tempo stesso, un’altra caratteristica che possediamo sin da quando abbiamo acquisito il pollice opponibile è il bisogno di raccontare storie, di affidare un lascito ai posteri. Dalle pitture rupestri ai recenti esperimenti per la Realtà Virtuale, abbiamo un bisogno intrinseco di raccontare e ascoltare, un bisogno che coinvolge pressoché qualsiasi contenuto sia leggibile, ascoltabile, giocabile.
Se prendiamo questo ragionamento come base, ne emerge che i videogiochi hanno un potenziale narrativo, didattico e di intrattenimento notevole, con la loro propria caratteristica dell’interattività. Di affidare al giocatore la responsabilità del proseguimento della storia, renderlo indispensabile all’esistenza stessa del messaggio di cui il gioco vuole parlare.
Da questo punto di vista quindi, i videogiochi sono la chiusura del cerchio, quello che racchiude tutte le arti sinora esplorate dall’essere umano e che riporta l’esperienza di apprendimento all’origine, quando da bambini prendiamo in mano oggetti a caso e li manipoliamo, edotti o meno sul bisogno pratico per cui essi sono stati creati.
Non è diverso dal prendere un (video)gioco di cui non abbiamo mai visto nulla, nemmeno un trailer, e impararne in corsa le regole. Ovviamente da adulti abbiamo un bagaglio esperienziale che in teoria ci avvantaggia, ma non diamo troppo per scontato. A volte l’innocente intuizione arriva più lontano della fredda analisi.
Ma arriviamo al motivo di questo lungo preambolo: durante il training SAHS (Sicily Againts Hate Speech) abbiamo provato un paio di videogiochi connessi uno alla situazione migratoria (gameplay attivo) e un altro sul tema della comunicazione (gameplay passivo)
Survival
Sviluppato da Omnium Lab, è un semplice smartphone game pensato per un pubblico giovane che fa uso di numerosi simbolismi grafici per parlare di un viaggio di migrazione attraveso mare e terraferma.
Tanto lo stile quanto la narrativa fanno il verso al platforming bidimensionale, rendendolo un gioco di cui risulta immediato apprendere le meccaniche, ma molto difficile metterle a frutto. La difficoltà è stata probabilmente tarata verso l’alto di proposito. Dopotutto, non sta scritto da nessuna parte che un gioco debba essere divertente per forza.
Anzi, come ogni forma d’arte, a seconda dell’obiettivo potrebbe aver bisogno di far leva su altre sensazioni, di indurre intenzionalmente il discomfort.
The Republia Times
Sviluppato da Lucas Pope, sviluppatore indipendente, autore anche dei particolari Papers, Please e Return of the Obra Dinn, il gioco mette il soggetto nei panni di un direttore di redazione costretto tra 2 fuochi: dover supportare il regime in cui vive (e che tra l’altro tiene in ostaggio la famiglia assegnatali) o cogliere l’opportunità di aiutare un gruppo ribelle inserendo messaggi in codice nei titoli di testa.
Succede così che il nostro ruolo è dover decidere in fretta quale notizia andrà in prima pagina assegnandole il centro, offrendole così massima visibilità, oppure la mezzapagina, di visibilità media , o le colonne, di visibilità piccola.
Dobbiamo aspettare tutti gli articoli dei nostri fedeli redattori prima di decidere, quindi il tempo è poco e la responsabilità tanta. E ovviamente avremo i supervisori del regime a controllare quotidianamente il successo del nostro giornale, quindi, qualora decidessimo di supportare i ribelli, dovremo farlo con arguzia. Ma poi, sono veramente loro l’alternativa migliore? Senza anticipare nulla, si può dire che non si tratta un gioco in cui dare le “fazioni” per scontate.
Com’è stato quindi, integrare i videogiochi in un Training?
Il lockdown ha contribuito a rimuovere alcuni preconcetti riguardo questo medium e, se è vero che possono diventare una passione in grado di prendere ancora più tempo di film e serie TV (preoccupazione legittima nella società sedentaria in cui ci troviamo), è vero anche che, da un lato esperienziale, hanno una differenza nelle fondamenta: Un film procede da solo, un videogioco no.
Il piccolo migrante nel suo viaggio di sopravvivenza e lo stressato direttore, la cui famiglia dipende dai risultati del giornale che gestisce, non erano soli. Eravamo con loro, ci siamo inseriti nelle loro vite e li abbiamo trainati verso il percorso che ritenevamo più efficace. Sperimentando con loro i problemi e gioendo con loro una volta trovata la soluzione.
Per chiudere il cerchio: penso che i videogiochi siano la tecnologia che raccoglie in sè tutte le arti ma che, nelle radici, si basino su un concetto che è addirittura pre-umano, qualcosa che ha più a che fare con la domanda chi siamo? che non con quella dove stiamo andando?
Una domanda irrisolvibile, ma che -sono sicuro- un giocatore consapevole ha quantomeno potuto esplorare da molte differenti angolazioni.
Manuel Berto
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