Intervista di Giovanni Padua a due anime della comunità albanese di Scicli – Prima parte.
Da qualche anno, negli ambienti colti della città di Scicli, si è cominciato ad usare la costruzione “Nuovi sciclitani”, atta ad indicare quelle persone, spesso facoltose, che da più di un decennio hanno scelto di abitare più o meno stabilmente nella città di Scicli. Parliamo di veneti, toscani, campani, tedeschi, francesi persino brasiliani che, attraverso la compravendita di più cellule abitative, hanno colonizzato lo spazio urbano di Scicli. Molti di loro sono artisti, uomini e donne di cultura e tutti si conoscono, appartenendo ad una sorta di comitiva forestiera che vive in una dimensione “alta” della città. La stragrande maggioranza degli sciclitani non frequenta questi coloni del xxi secolo, viceversa, per quest’ultimi, i “vecchi sciclitani” non sono altro che il punto di contatto con un’autenticità voracemente agognata ma resa inaccessibile da spessi strati di esotismo.
Dobbiamo fare un brusco salto indietro nel tempo; mettiamoci in viaggio con la memoria verso le pendici del secolo scorso, ultimi anni dell’ultimo decennio del xx secolo. Io sono un bambino di cinque anni e frequento la scuola materna della Chiesa Evangelica Metodista a Scicli. Capisco che ho intercettato il ricordo giusto perché sono sommerso da decine di giocattoli e disegni colorati, una bolgia ludica capace di eccitare l’immaginazione di ogni bambina e bambino del mondo. A brillare, oltre ai miei occhi, sono gli sguardi di due bambini, fratello e sorella, lui si chiama Boss ma il nome di lei, della bambina bionda con gli occhi grandi, non lo ricordo più. Questo è il primo ricordo che nel mio vissuto testimonia il primo punto di contatto con una nuova cultura, proveniente da un posto al di là del “nostro” mare, da una terra in cui i monti sono fratelli del mar mediterraneo e in cui le aquile volano maestose e le tartarughe sono randagie come i gatti. Boss e sua sorella sono stati i miei primi compagni di scuola di origini albanesi.
Prima precisazione: non tutti gli albanesi vivono nella Repubblica d’Albania, molti di loro rappresentano grosse fette delle popolazioni degli stati limitrofi e, abbandonando le coordinate spaziali per spostarci ancora una volta indietro nel tempo, già nel xv secolo d.C. il popolo albanese ha vissuto una diaspora da cui, nel meridione d’Italia, è fiorita l’Arbëria una macroregione culturale che comprende la Puglia, la Calabria, la Campania e l’entroterra siciliano (ma anche la Sardegna!), animata dagli arbëreshë, discendenti di quelle genti che in seguito alla morte del condottiero Giorgio Castriota Skanderberg furono costrette ad emigrare per evitare il giogo della dominazione Ottomana.
Scicli è oggi la casa di circa 2452 “nuovi sciclitani”, persone che non vengono dalla rassicurante terra del prosecco, che non hanno un accento partenopeo e non hanno cognomi altisonanti. Il 46,7% dei nuovi Sciclitani è originario dell’Albania, prime e seconde generazioni protagoniste in modi differenti di un nuova “diaspora” che con quella del xv secolo condivide l’essere stata provocata dalla fine di un mondo e l’incertezza del futuro.
In merito agli ultimi casi di Covid19 tra la fine di Febbraio e l’inizio del mese di Marzo, si sono rincorse voci che accusavano in maniera indiscriminata tutta la comunità albanese di Scicli di essere la causa dell’ondata di nuovi positivi in città. Non mi interessa qui proporre analisi controfattuali, sono più attratto dall’emersione esplicita di un’immagine stereotipata che gli sciclitani hanno di questa cultura.
Facciamo un po’ di ordine: il 53,3% dei 2452 “nuovi sciclitani” di origine extraeuropea o provenienti dall’est Europa è praticamente invisibile. Parliamo di poco più di 1300 persone: sono provenienti o originari della Tunisia e della Romania ma non esistono praticamente che come stereotipi ed immagini degradate e degradanti nella testa degli sciclitani. I nuovi sciclitani di origine albanese hanno avuto un destino diverso: essi vivono in un limbo di tolleranza circoscritto da uno spesso strato di pregiudizio. Gli albanesi sono certamente più integrati perché nel corso dei decenni hanno affiancato gli sciclitani nel lavoro dentro le serre, nelle imprese edili come manovali e muratori e alcune famiglie si sono specializzate nell’antica arte dei muretti a secco. Eppure la cronaca, le voci di popolo e un cripto-razzismo serpeggiante li ritrae come uomini e donne poco inclini a rispettare le regole, criminali incalliti, ladri, spacciatori e spregiudicati imprenditori del mercato illegale. Se i rumeni sono tutti zingari, i tunisini tutti spacciatori e ubriaconi, gli albanesi sono dunque grandi lavoratori ma anche dei “selvaggi” delinquenti. Questo mi sembra il ritratto etnico che fa mostra di sé nell’immaginario della popolazione di Scicli.
Non volendo liquidare la questione con la sentenza “Gli sciclitani sono intrinsecamente razzisti” ho provato a ragionare comparando l’idea che i miei concittadini hanno dei primi “nuovi sciclitani” menzionati, che da ora in avanti chiamerò “nuovi coloni” e l’immagine che gli stessi possiedono della comunità albanese. Perché davanti ai primi ci si toglie il cappello e si vestono i panni dei ciceroni improvvisati e invece difronte ai secondi si cambia strada o comunque si preferisce non avere contatti diretti?
Per rispondere a questa domanda ho ritenuto necessario dialogare con due ragazzi, Isa Kaja e Helena Sina, sciclitani a tutti gli effetti, nati nella nostra provincia e formati nelle nostre scuole. Li ho intervistati per provare a vedere se i miei pensieri potessero avere un riscontro radicato nei loro vissuti. L’intervista è stato un momento molto intenso e ha permesso ai miei due interlocutori di esprimersi a 360°. Questo ha determinato una lunghezza eccessiva dell’intervista e non volendo operare un taglia e cuci irrispettoso si è imposta da sé la divisione in più parti dell’articolo.
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