Chi si aspettava un ingresso del nuovo anno in punta di piedi sarà sicuramente divenuto cianotico in viso assistendo a ciò che, invece, il 2020 ha offerto nelle sue prime 72 ore di vita. Nella notte tra giovedì e venerdì, infatti, droni statunitensi hanno bombardato l’aeroporto internazionale di Baghdad in seguito all’assedio portato dalla milizia irachena filo-iraniana Kataib Hezbollah all’ambasciata americana nei due giorni precedenti.
Vittima e obiettivo del raid è stato il Generale Qassem Suleimani, figura centrale nella lotta allo Stato Islamico, legato a numerosissime organizzazioni, istituzionali o meno, in tutto il Medioriente. Noti, per esempio, i suoi rapporti con i libanesi di Hezbollah.
Eventi di questo tipo avranno senza ombra di dubbio delle conseguenze molto pesanti, alcune delle quali sono già visibili come, ad esempio, il picco del prezzo del greggio o la mobilitazione di massa di truppe e rifornimenti statunitensi dalle basi di tutto il mediterraneo. Fino a poco più di trent’anni fa, del resto, sarebbe bastato molto meno per far precipitare il mondo in una poco piacevole III° Guerra Mondiale.
Realisticamente ci sembra difficile che possa esplodere un conflitto di tale portata: le circostanze storiche non lo rendono consigliabile e simile è l’avviso delle parti in causa. Trump a ridosso delle elezioni non può rischiare di intraprendere una guerra senza la certezza di poterla gestire in maniera inappuntabile e l’Iran, d’altro canto, non è militarmente in grado di sostenere uno sforzo simile.
Le possibili conseguenze restano però molte e imprevedibili in virtù dell’incidenza di numerosi fattori che concorrono a rendere ancora più confuso un quadro già abbastanza complesso: il fatto che il raid sia avvenuto sul territorio iracheno; le eventuali implicazioni del restante mondo arabo; l’avventatezza di Washington e la sensazione che Trump non abbia ben chiaro come comportarsi al di fuori dei propri confini nazionali. Del resto la spiegazione del raid come atto difensivo in replica all’assedio dell’ambasciata americana a Baghdad (questa è la versione ufficiale del pentagono) appare pretestuosa e quanto mai provvidenziale così come ci coglie dubbiosi quella che vorrebbe l’accaduto come una dimostrazione di forza in ottica elettorale. Se così fosse, sarebbe senza dubbio un modo innovativo di fare campagna ma contraddirebbe il mai celato scetticismo che Trump ha espresso verso le politiche interventiste dei suoi predecessori. Anche il modus operandi del Presidente USA rende evidente che la sua linea in politica estera sia piuttosto
confusa: anzitutto, Suleimani era la guida delle truppe Quds già da più di vent’anni ed era un volto noto fin dai tempi dell’amministrazione Bush Junior; oltretutto quest’improvvisa accelerata è quanto mai singolare perché ha portato i vertici della White House a forzare l’abbattimento del bersaglio sul territorio di un terzo stato, l’Iraq, il cui presidente Braham Salih, dopo aver duramente condannato l’azione come un’ingerenza intollerabile ai danni della sovranità territoriale irachena ha aggiunto che l’Iraq è stanco di trovarsi da anni tra l’incudine e il martello di conflitti che nemmeno lo riguardano.
L’unico risultato di questa grossa miopia è stato di aver ulteriormente inasprito le posizioni della fazione militare filo-Iraniana in un paese che, sebbene formalmente alleato Usa e beneficiario dei finanziamenti d’oltreoceano, resta di fatto vulnerabile alle trame e intromissioni del vicino Iran.
Vi è poi inoltre da interrogarsi circa l’evidente obsolescenza degli organismi di mediazione e concerto internazionali che dovrebbero ridurre a extrema ratio questo tipo di interventi e rimanere garanti di quegli stessi obblighi di cui gli Stati Uniti sono sempre stati i principali promotori.
In questo caso, Trump ha sostanzialmente bypassato l’ONU limitandosi ad appaltare al Segretario di Stato Pompeo una peroratio telefonica ad alcuni vertici dei seggi permanenti e Berlino circa i vantaggi comuni del raid.
Sebbene le reazioni internazionali abbiano ribadito la necessità di un atteggiamento di moderazione e il segretario ONU Guterres abbia espresso preoccupazione circa la possibilità di una nuova crisi in Medioriente, non una sola istituzione ha condannato quello che resta un vero e proprio omicidio transfrontaliero fuori da ogni autorità, dopo il quale si attende la già promessa vendetta dell’Iran che, nel frattempo, ha diffuso una dichiarazione d’intenti minacciando di uscire dal PACG (il patto sul nucleare).
Sia chiaro che nessuno ritiene che Suleimani sia stato solamente una vittima del massimalismo bellico Statunitense: una lunga lista di assassinii e atti illiberali di ogni sorta certamente gravava sul profilo del generale del quale, tuttavia, gli Stati Uniti non possono arrogarsi il diritto di essere da soli giudice, giuria e boia.
Le poche realtà politiche che potrebbero indurre, per peso internazionale o per facilità geografica, alla cautela gli Stati Uniti, quali Russia e Cina, si sono prodotti in semplici dichiarazioni di rito e appelli alla calma senza esporsi in attesa dei prossimi sviluppi. L’attendismo, è effettivamente la strategia prescelta da Russia e Cina: quest’ultima versa in uno stato di grave instabilità sociale e non può sbilanciarsi troppo, mentre Putin preferisce osservare l’evolversi della situazione in attesa di cogliere rapacemente l’occasione di schierarsi nel modo a lui più vantaggioso in chiave geopolitica
e diplomatica. Resta poi soltanto l’Europa con i suoi membri: tra questi, proprio l’Italia, potrebbe avere un ruolo molto significativo.
Il nostro paese ha, infatti, nell’Iran uno dei propri principali partner commerciali e potrebbe ritagliarsi uno spazio maggiore in questo contesto, facendo per una volta corrispondere al proprio peso strategico una reale credibilità diplomatica invece di affidare la propria reazione agli entusiasmi islamofobi e improvvidi di Salvini o alle asserzioni estemporanee di Di Maio.
Vincenzo Criscione
[…] Il silenzio di Tel-Aviv alle dichiarazioni di Abu-Mazen è un evidente sintomo del fatto che Israele non riconosca all’ANP nessun peso politico, mentre non è mancata la pronta replica alle dichiarazioni dell’Iran di Khamenei da parte del nuovo esecutivo israeliano. Nel corso dell’ultimo venerdì del mese di Ramadan, denominato al-Quds e dedicato alle manifestazioni di sostegno ai palestinesi fin dal 1979, Khamenei si era espresso molto duramente affermando che “il virus del sionismo sarà presto estirpato dalla regione” e definendo la lotta per la liberazione della Palestina un “dovere islamico”, un vero e proprio Jihad. La replica del co-premier israeliano Gantz non si è fatta attendere e, facendo valere i propri trascorsi militari, ha affermato “suggerisco di non metterci alla prova”. Ecco che si risveglia, così, la tensione tra Iran e U.S.A. che aveva già inaugurato il 2020 (vedi l’articolo di Vincenzo Criscione). […]