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Sicurezza e altre illusioni

Viviamo in tempi difficili, anche se siamo immersi in un benessere che la società occidentale non ha mai conosciuto prima d’ora e al quale adesso aspirano ad accedere anche le popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo. Non esiste politica urbana che non insegua in maniera ossessiva lo sviluppo economico secondo le ricette delle metropoli globali. Sono i tempi della globalizzazione in cui il mondo è interamente connesso attraverso una rete di relazioni organizzate gerarchicamente e in cui anche ciò che succede dall’altra parte del mondo può avere ripercussioni sulle nostre vite. Si tratta, quindi, di un processo in costante e imprevedibile evoluzione che ha favorito avvincenti percorsi di emancipazione, ma allo stesso tempo porta con sé i caratteri della diseguaglianza e della disparità. Evidenti sono le condizioni di esclusione che fanno da contrappeso alle sempre più elitarie situazioni di opulenza. In questa vita, che si esprime sempre di più attraverso un reddito, la precarietà fa da sfondo all’esistenza di tutte le nuove generazioni.

Sono anche i tempi del neoliberismo, un sistema che si è affermato alla fine dell’epoca d’oro del capitalismo. Dal secondo dopoguerra agli anni ‘70 il modello fordista-keynesiano aveva integrato il paradigma della crescita economica con una redistribuzione della ricchezza per mezzo di politiche di welfareche hanno fatto dello Stato un fornitore di servizi sociali: sanità, istruzione, pensioni e varie altre forme di previdenza sociale venivano mantenuti da una considerevole pressione fiscale che non spaventava il miracolo economico. Le sofferenze della guerra sembravano ormai un lontano ricordo e le vite dei cittadini potevano prosperare nella sicurezza sociale garantita dallo Stato. Tuttavia le crisi, che si ripresentano ciclicamente, misero a dura prova i bilanci degli stati occidentali avviando un ripensamento critico sulla sostenibilità di quel modello.

Fu così che durante gli anni ’80 e ‘90 vennero intraprese delle drastiche politiche di riduzione della spesa dello Stato per abbassare la pressione fiscale e incoraggiare gli investimenti economici. Ciò avvenne al prezzo di due importanti conseguenze. La prima fu lo smantellamento del Welfare, perché i servizi sociali per una popolazione sempre più numerosa e anziana richiedevano un esborso crescente, e così, i governi conservatori inseguirono freneticamente delle politiche di privatizzazione e deregolamentazione del mercato in nome della libertà economica. La seconda fu l’imprenditorializzazione del settore pubblico, poiché la riduzione delle risorse pubbliche portò lo Stato a delegare la fornitura di servizi destinati alla collettività alle realtà regionali e locali che a loro volta delegarono ai privati a causa della mancanza di risorse: anziché preoccuparsi dei problemi di redistribuzione della ricchezza e di giustizia sociale anche le istituzioni governative locali, contrattualizzando delle prestazioni con i privati, cominciavano a dare priorità a questioni di competitività e accrescimento della ricchezza. I governi progressisti si convertirono ai dettami neoliberisti ma riportarono in auge l’attenzione per la questione sociale cercando di coniugarla con la persistente esigenza di competitività: si affermava un sistema che individualizzava i guadagni nelle fasi di espansione e socializzava le perdite nelle fasi di recessione.

Nel frattempo si formavano delle istituzioni economiche sovranazionali, come la Banca Mondiale e l’Ocse, che hanno diffuso tra i paesi membri gli orientamenti dello sviluppo economico e hanno inteso le città come propulsori della crescita in grado di ricoprire dei ruoli centrali nelle reti degli scambi mondiali e di connettere l’economia locale direttamente con i flussi globali, trascendendo i confini nazionali. La questione urbana diventava così una questione di ottimizzazione della produttività economica locale e i problemi abitativi, i servizi alla collettività e la lotta alla povertà vennero affrontati attraverso strategie di crescita. Ma quali sono stati gli effetti più visibili? Le periferie urbane costruite per trainare lo sviluppo si degradano, i centri storici abbandonati vengono sventrati con il pretesto della “riqualificazione”, sorgono gli slums delle Metropoli del Sud. La crisi del 2008 ha ridimensionato le illusioni di accrescimento illimitato della ricchezza e la sensazione di insicurezza economica è tornata a farsi sentire prepotentemente. Ciò si somma alla precarietà tipica della globalizzazione che, abbiamo visto, essere imprevedibile.

In questa situazione di incertezza strutturale e di limitata capacità di azione dei governi centrali le democrazie occidentali trovano sempre più difficile promettere un miglioramento delle condizioni di vita senza cozzare contro «la realtà di politiche che intensificano la flessibilità del lavoro, riducono la previdenza sociale, privatizzano l’erogazione di servizi» (Vanolo-Rossi, 2010). Cercano, quindi, di ostentare capacità di prevenzione su quei fattori che potrebbero essere all’origine di ansie collettive e prendono dei provvedimenti intransigenti nei confronti dei soggetti più indesiderati. Questa “politica della paura” utilizza la lente della sicurezza per rappresentare delle specifiche problematiche sociali e mobilita interessi, retoriche e modalità di governo che hanno l’effetto di criminalizzare i soggetti marginali e compromettere la libertà di azione nello spazio pubblico. I provvedimenti sul decoro urbano, gli strumenti di sorveglianza, la militarizzazione degli spazi, perfino la progettazione urbanistica sono strumenti in grado di annichilire il carattere pubblico dello spazio urbano e di ridurre le possibilità di fruizione trasferendo le attività di socializzazione collettiva nei luoghi privati. È così che la strada e la piazza, tradizionalmente deputati all’esercizio della vita pubblica e alla rivendicazione dei diritti, si svuotano in favore dei centri commerciali o di pubblici esercizi; è così che criminalizzare i poveri e gli immigrati o gettare ombra sui movimenti di protesta ne delegittima la presenza nello spazio pubblico della città e autorizza l’intervento securitario. La rimozione degli “inquinanti sociali” porta con sé una dose di violenza implicita che, se non adeguatamente riconosciuta, compromette l’esercizio democratico e la rivendicazione della giustizia sociale. Questa deriva autoritaria trova terreno fertile nell’attuale sensazione di insicurezza economica ed è l’alternativa presente ad un mancato ripensamento del sistema neoliberista e del mito della crescita.

Massimo Occhipinti

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