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Sicilia sotto inchiesta – Manifesto

Esiste in Sicilia una classe dirigente che, negli ultimi anni, ha deciso di occupare notevoli spazi di potere, economico e politico. Ed è riuscita a fare ciò grazie alla costruzione di un sistema diffuso di corruttela o di connivenze, piegando spesso gli interessi pubblici a quelli privati. Si tratta di una classe dirigente imprenditoriale, istituzionale e politica, che dall’intreccio tra interessi privati e pubblici è riuscita, negli anni, a procurarsi ingenti guadagni. Questa classe dirigente ha assunto questo metodo sulla base, da un lato, dell’autoconvincimento che sia intoccabile, formata da persone la cui posizione apicale gli permette di agire impunemente; dall’altro lato, di un’errata (o inesistente) percezione del danno creato e del reato compiuto.
Come se fosse normale dialogare con la criminalità organizzata, come se fosse normale ragionare secondo la logica del do ut des.
Ciò è stato reso possibile anche in virtù del fatto che, spesso, pezzi dello Stato hanno accettato di aderire a determinate logiche, fornendo informazioni utili alla conservazione del sistema, avvalorando la tesi che, in fondo, “se anche le forze dell’ordine stanno con noi”, non ci sia nulla di sbagliato. Eppure, a guadagnare sui bisogni dei molti erano i soliti noti, mascherati dai veli della legalità e coperti dalla classe politica.

Esiste, allora, in Sicilia anche una classe politica che è stata connivente, se non complice, con questo metodo che si è fatto sistema di potere. Ciò è stato possibile perché, indipendentemente dall’appartenenza di partito, questa classe politica ha smarrito la bussola della questione morale, non ha più gli anticorpi per riconoscere e rigettare, sulla base delle responsabilità politiche (prima ancora che giudiziarie), simili logiche di profitto. E sono state poche ed isolate le voci che hanno denunciato questo sistema, a causa del fatto che l’informazione dell’isola è stata strumentale all’acquisizione di tali spazi di potere e non ha agito come cane da guardia. “Un giornalismo fatto di verità ci aiuta a combattere la corruzione” diceva Pippo Fava.
I legami che certi esponenti di partito hanno avuto, negli anni, con rappresentanti di sodalizi criminali vari (in Sicilia, ad esempio, con Cosa Nostra) sono stati presi in considerazione dalla politica solo dopo l’intervento della magistratura. Eppure ce lo spiegava già il giudice Paolo Borsellino quali potessero essere i rapporti tra le responsabilità politiche e giudiziarie: “Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!”.

Alla luce di un siffatto sistema, ci chiediamo quali possano essere le cause che lo hanno generato e quali le possibili soluzioni. È del tutto evidente che lo stretto intreccio tra gli interessi privati e quelli pubblici trova la sua più immediata causa nel sistema di finanziamento dei partiti, strumenti costituzionali di aggregazione delle istanze dei cittadini (e non soltanto del consenso, come spesso si travisa). Se, abolito il finanziamento pubblico, l’unica possibilità di sopravvivenza dei partiti è stato il capitale privato, che vive sulla logica del profitto, è del tutto lapalissiano affermare che il rischio di tale intreccio si sia tramutato in danno concreto, in sviamento degli interessi pubblici a favore dell’interesse privato. Ciò è accaduto e accade perché i partiti non hanno gli strumenti di auto-regolamentazione e di controllo necessari, tali da impedire ai capitali di determinare le politiche (economiche, sociali, fiscali).
In secondo luogo, l’abbandono di un’attenta analisi (e critica) di quella che è stata definita “la questione morale” ha comportato, poi ed in parte, la disgregazione di un sistema di valori fondato sulla responsabilità politica prima ancora che giudiziaria. Ciò è del tutto evidente anche nel linguaggio comune. Sempre più spesso ci si interroga su di chi sia la “colpa” e non la “responsabilità”. E si badi, i due termini non sono sinonimi, dal momento che afferiscono a due sfere del tutto differenti: la colpa è quella dei fedeli peccatori; la responsabilità è quella dei cittadini.

Le risposte che possiamo, allora, trarre fuori da questa analisi non possono che essere le seguenti: in primo luogo, a livello istituzionale, pensiamo sia necessario ripristinare una forma di finanziamento pubblico dei partiti, affinché sia possibile per tutti recuperare spazi di autonomia dalle ingerenze private, accompagnato da una profonda riforma del finanziamento privato, sottoposto alle rigide discipline della trasparenza. In secondo luogo, sarà necessaria una profonda riforma dei partiti e delle loro strutture interne: non è possibile che abbiano la possibilità di derogare alle più basilari norme democratiche, ostruendo il dibattito e privatizzando i centri decisionali, a volte mascherandoli dietro il mito della democrazia diretta (dove, ancora una volta, sono i pochi a decidere per i molti – basta andare a confrontare il numero degli iscritti con quello dei votanti per rendersi conto di ciò -). In particolare, tale riforma potrà riportare al centro del dibattito pubblico il valore della responsabilità politica: sia per i comportamenti di chi rappresenta nelle istituzioni il popolo, che, soprattutto, per le scelte.

Questi sicuramente criticabili propositi non possono prescindere, tuttavia, da un orizzonte comune: il rinnovamento (o azzeramento) della classe dirigente e politica. Non può essere soltanto una speranza per un gruppo di facce nuove, ma una necessità che ci impone di sviluppare nuove prassi, riattivando percorsi di relazione interpersonale (e non solo digitale), costruendo dal basso spazi di aggregazione collettiva, accompagnando, perciò, le persone a riprendere in mano le sorti delle comunità in cui vivono attraverso i più basilari strumenti democratici: le assemblee.
Ciò è ancor di più necessario per evitare di rimanere intestini silenziosi capaci solo a digerire dalla bocca mafiosa, capitalista, razzista e populista.

Simone Lo Presti

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