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Taralalli: la matta di Hebron

La parola araba “taralallipuò essere tradotta in italiano con il termine “matta”, da intendersi in quell’accezione positiva, scherzosa che di solito potremmo utilizzare con un amico esuberante, divertente. In quest’occasione, il termine indica invece una persona, è il nome con cui la riconoscevano i bambini di Hebron, città nel sud della regione della Cisgiordania, confine fisico ed esistenziale della Palestina.

Incontro Taralalli una mattina d’autunno. È tornata da pochi giorni dal suo soggiorno ad Hebron: è visibilmente scossa, ma mi regala un largo sorriso. Caffè, penna e taccuino sono sul tavolo di un bar del centro storico, io seduto di fronte a lei, ascolto ogni racconto matto, proprio come il suo nome, che riempiono l’intera mattinata. Non c’è un ordine cronologico nelle sue parole: è un fiume di pensieri, sentimenti ed immagini che ha accumulato vivendo negli ultimi mesi in quel confine.
Siamo seduti ad un tavolo di un bar di una piccola città del profondo sud italiano, eppure tra le sue parole riesco a vedere il volto cupo di Ofer mentre, illuminato dalla luce rossa dell’ambulanza, all’imbrunire, colpisce con dei piccoli calci il cadavere di un uomo che era stato sparato qualche ora prima ad un checkpoint ed era ancora riverso a terra; lo sguardo cieco di un bambino di 10 anni “nato morto”, dice lui; la diffidenza e la paura degli abitanti del luogo; la brutalità dell’esercito e il senso di onnipotenza che le armi danno a chi ne tiene in mano una.

Al suo arrivo era stata trattenuta più di 5 ore in aeroporto, dove alcuni agenti l’avevano riempita di domande, chiedendole insistentemente se fosse una spia e controllando a fondo pc e telefono. La psicosi generata dal conflitto ha creato una quotidianità del complotto in Israele, dove persino occuparsi di violazioni di diritti umani o l’obiezione della leva militare, sebbene prevista dalle leggi israeliane, diventano occasioni per il discredito sociale: si diventa “traditori dello Stato” agli occhi del cittadino medio.

“Oggi è venerdì, oggi è resistenza”, mi dice fiera Taralalli, tenendo stretta tra le dita la Kefiah che porta intorno al collo. Mi racconta delle manifestazioni per strada, delle sue foto e dei suoi video, per documentare tutto, perché non ci sia mistificazione, perché non ci sia oblio, quello che deriva anche dalla paura del militare e che fa desistere chiunque dal raccontare la verità sui fatti cui assiste.
La presenza militare nell’area C viene giustificata dalla necessità di difendere i coloni dai palestinesi, ma non tiene conto del fatto che, come più volte sottolineato anche in sede ONU, è Israele ad aver occupato militarmente quei territori, tanto che l’ONU stessa ha proposto l’invio di forze armate al fine di predisporre un piano di protezione per gli abitanti dei territori occupati.
“Tutti dovrebbero andare ad Hebron”, mi ripete almeno 3 volte durante il nostro incontro. “Per la lotta, per l’autodeterminazione dei popoli, per il diritto: tutti dovrebbero andare ad Hebron”. La sua voce è ferma, non vacilla neanche davanti ai miei, forse stupidi, perché. “La nostra generazione ha perso forse ciò per cui lottare, lì invece c’è ancora qualcosa per cui vale la pena lottare: è questo il senso”. Il suo è uno schiaffo agli agi dell’Occidente, conteso da dinamiche politiche concentrate su sicurezza, paura dello straniero e accumulazione di potere economico e finanziario.

Simone Lo Presti

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