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Gli eroi silenziosi di MEDU

All’interno del settore dell’accoglienza operano tante realtà spesso sconosciute. Una di queste realtà è MEDU, Medici per i Diritti Umani, un’organizzazione umanitaria che opera in tutto il mondo a fianco delle popolazioni più svantaggiate e che all’interno dei centri di accoglienza fornisce un supporto fondamentale per il sostegno dei beneficiari che si trovano in condizioni di disagio psicologico. Abbiamo fatto qualche domanda a Samuele Cavallone, coordinatore in Sicilia di Medici per i Diritti Umani, che ha risposto insieme al suo team riguardo al ruolo e alle criticità del loro lavoro, e riguardo la loro posizione sui temi dell’accoglienza in un periodo, come quello attuale, in cui il dibattito è infuocato.

Cos’è MEDU, e di cosa si occupa?
MEDU – Medici per i Diritti Umani è un’organizzazione medico-umanitaria fondata nel 2004 a Roma con lo scopo di portare assistenza sanitaria e di garantire il diritto alla salute delle popolazioni più vulnerabili in situazioni di crisi, in Italia e nel mondo.

Quali sono i contesti in cui operate e in che condizioni avviene l’intervento di MEDU?
MEDU opera nei contesti dove il diritto alla salute non viene garantito per portare assistenza sanitaria e al contempo denunciare con un’azione di testimonianza le violazioni dei diritti umani, nei limiti delle risorse a disposizione e sempre in maniera indipendente da affiliazioni politiche, sindacali, religiose ed etniche. Ci poniamo dunque come obiettivo quello di portare aiuto sanitario a tutte le persone vulnerabili e il fatto che in Italia, al momento attuale, questo si traduca in attività legate ai migranti è un fatto contingente legato all’estrema vulnerabilità di queste persone. Attraverso le nostre attività, infatti, favoriamo il loro accesso ai servizi sul territorio e forniamo loro supporto quando tali servizi non sono adeguati o sufficienti. In Sicilia, ad esempio, forniamo un servizio di supporto psichiatrico e psicologico ai migranti vittime di tortura e di altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti ospiti nei Centri di Accoglienza Straordinaria della Provincia di Ragusa, nel CARA di Mineo e, in occasione di sbarchi, anche nell’hotspot di Pozzallo.

Quali sono le criticità del vostro intervento, e in particolare quali sono le problematiche principali di chi arriva per mare?
Secondo i nostri dati, l’82% dei migranti arrivati in Italia e che sono transitati in Libia hanno subito torture e/o trattamenti crudeli, inumani e degradanti. Tutte queste esperienze lasciano, come ovvio, profonde cicatrici tanto nel corpo quanto nella mente dei migranti. Insonnia, incubi, dissociazione, pensieri intrusivi, flashback sono solo alcuni dei sintomi che riscontriamo nei migranti che hanno vissuto quel tipo estremo di violenza, mentre i principali disturbi psichici diagnosticati sono il disturbo da stress post-traumatico, disturbi depressivi e disturbi da sintomi somatici. In generale si può dire che la tortura, come ci ha insegnato Primo Levi, annulla l’umanità non solo di chi la pratica ma anche di chi la subisce. Sintetizzando in poche parole la nostra azione, potremmo dire che MEDU cerca di percorrere insieme ai pazienti una strada che dall’inumano li riporti all’umano.

Come giudicate il supporto istituzionale nel territorio, è possibile fare di più da parte delle istituzioni?
Sicuramente stiamo vivendo a livello istituzionale una situazione particolare: è stato un anno di elezioni politiche e il tema dei migranti è stato spesso strumentalizzato da più fronti, a scapito di un’obiettiva e approfondita analisi del tema. Da parte nostra, non possiamo che essere preoccupati nel sentire che verranno effettuati tagli significativi nel settore dell’accoglienza: questo si tramuterà in una riduzione dei servizi erogati e il supporto psicologico e psichiatrico viene quasi sempre nominato per primo in questi casi. Ovviamente, tutti i sintomi e i disturbi prima elencati non spariranno improvvisamente e la difficoltà nell’accedere ai servizi aumenterà i rischi di vedere trascurati i bisogni di queste persone, il loro diritto alla salute nonché il loro processo di integrazione. Sembra che manchi la volontà di favorire l’integrazione mentre sia maggiore la spinta a identificare nei migranti la causa dei tanti problemi di questo paese, una causa alla quale bisogna dunque chiudere le porte e che bisogna allontanare dal nostro territorio. Per fortuna, bisogna dire che a livello locale, le istituzioni e, nella fattispecie, le Prefetture, non hanno mai fatto mancare il loro supporto e si sono sempre dimostrate collaborative nei nostri confronti.

In generale quali sono i problemi principali che incontrate all’interno della rete dell’accoglienza? Si potrebbe fare di più per migliorare la vostra compresenza con gli altri enti operanti nel sistema e in che modo?
La mancanza all’interno del sistema accoglienza di centri specifici per persone vulnerabili con problemi mentali, centri diurni dove personale specializzato possa prendersi cura dei migranti con questo tipo di problematiche, è sicuramente uno dei principali ostacoli nel percorso di cura e di integrazione dei nostri pazienti. Soprattutto a livello psichiatrico, le strutture e i servizi del territorio con competenze specifiche per migranti si rivelano a volte insufficienti in termini di forze messe in campo. A tal proposito, un dato è significativo: il servizio di etno-psichiatria dell’ospedale di Caltagirone, quello cui fa riferimento il CARA di Mineo che ospita ancora oggi più di 2000 persone e può offrire supporto a quattro pazienti ogni due settimane. Un numero decisamente basso rispetto alle esigenze della popolazione del campo, come è facile immaginare, visto che molti dei migranti ospitati sono passati attraverso l’inferno libico.

Il dibattito negli ultimi mesi si è infuocato per quanto riguarda il tema dell’immigrazione. Tra attori istituzionali che esprimono posizioni dure nei confronti delle organizzazioni che operano nel settore dell’accoglienza e tonnellate di malcontento che continua a diffondersi nei social, qual è la vostra posizione nel tema, e quali pensate possano essere le vie d’uscita da questo tunnel dell’odio che si è creato?
Come MEDU, riteniamo che il fenomeno migratorio sia un fenomeno estremamente complesso e rifiutiamo qualunque tentativo di semplificarlo in semplici dicotomie quali “porti chiusi o porti aperti” piuttosto che “essere a favore o contro i migranti”. Questa tipologia di approccio, spesso usato per fini propagandistici su svariati fronti, distorce automaticamente un qualcosa che richiede invece soluzioni ben più articolate con al loro interno risposte ai vari aspetti che determinano le migrazioni e alle loro conseguenze. Da un lato non possiamo girarci dall’altra parte sapendo che in Libia, a poche miglia dalle nostre coste, ogni giorno delle persone vengono torturate e subiscono violenze di ogni tipo; questo significa, per esempio, accogliere le persone che riescono a fuggire da quell’inferno e fare di tutto perché possano riacquistare l’umanità che hanno perduta a causa della violenza subita. Significa anche contestare il considerare la Libia come un “partner strategico” sul tema immigrazione, visto che è chiaro come, al momento attuale, sul territorio libico avvengano ripetute violazioni dei diritti umani come ormai attestato da più parti, incluse le Nazioni Unite. Dall’altro lato, è chiaro che nessuno vuole vedere le persone su gommoni fatiscenti mettere a rischio la propria vita in attesa di soccorso pur di scappare da guerre, fame e povertà ed è quindi necessario creare delle rotte migratorie sicure affinché i migranti possano cercare in tutta sicurezza delle vie d’uscita dalle situazioni complicate, violente e di povertà estrema in cui spesso sono nati e cresciuti. Ridare complessità al fenomeno migratorio significa anche confutare alcune equivalenze che si sono ormai instaurate nel pensiero comune: penso all’equivalenza “migranti = criminalità” oppure “migrante economico = avventuriero in cerca di fortuna”. I fattori che spingono una persona a diventare “migrante” sono vari e complessi e spesso comprendono anche il nostro stile di vita: quanti di noi sono ben felici di comprare tre magliette “made in Bangladesh” a 5 euro senza farsi troppe domande sul perché di quel prezzo ridicolo? Un prezzo tale è possibile perché spesso i lavoratori in quel paese vengono sfruttati e non bisogna poi stupirsi se, invece che rimanere a lavorare in quelle condizioni, alcune persone decidono di partire per l’Europa. È solo un esempio ma serve per capire come ormai non sia più possibile pensare che un Paese possa chiudere le proprie frontiere e vivere isolato dal resto del mondo e come sia inaccettabile ipotizzare che dei paesi più poveri ci interessano solo le risorse naturali o i prodotti a prezzi convenienti ma non le persone che ci vivono e che, in qualche modo, sfruttiamo  indirettamente. È da questa complessità e apertura mentale verso le ragioni di chi arriva nel nostro paese che riteniamo si debba partire per uscire da quel famoso tunnel dell’odio da voi menzionato, in cui, va detto, per fortuna non tutti sono entrati.

Molti migranti arrivano in Italia in uno stato psicologico critico a causa delle atrocità patite durante la traversata, durante la permanenza in Libia e durante il viaggio per fuggire dai propri paesi. Vi sono spesso situazioni di disagio irreversibile,  in che modo si potrebbe offrire all’interno dei centri di accoglienza un supporto psicologico migliore?
Offrendo in maniera continuativa possibilità di formazione al personale che lavora nei centri sulle conseguenze devastanti che tortura ed altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti possono causare a livello di salute di mentale. Quello che manca è una progettualità della formazione su questi temi, sia per il personale che lavora nei centri di accoglienza che per quello del servizio sanitario nazionale. Vi sono durante l’anno occasioni di scambio in questo ambito ma si tratta di giornate di formazione isolate, non connesse fra di loro secondo un percorso studiato che invece ne aumenterebbe l’efficacia, aumentando anche la qualità del servizio offerto.

Intervista di Sandro Tumino e Giovanni Massari

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