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Lottare per la pace – storia dal fronte

“La cosa più grande della nostra presenza è creare spazi in cui le persone possano immaginare futuri diversi, possano collaborare nelle diversità più estreme, possano crescere più serene, possano consapevolmente scrivere la propria storia”. Queste le parole di S., una ragazza di 24 anni di Reggio Emilia che dedica il suo tempo agli ultimi attraverso varie attività e progetti. Da quando ha 19 anni ha vissuto e lavorato con le persone più diverse: in comunità d’accoglienza con donne dai passati difficili o come educatrice con gli adolescenti e i bambini dei quartieri popolari della città. “Nella mia vita -mi confida- ho quindi seguito questo filo rosso che mi parlava di condivisione e giustizia, e con Operazione Colomba ho continuato a seguirlo”.

Operazione Colomba: cos’è?

Operazione Colomba è il corpo civile nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII e riguarda l’attività di diverse donne e uomini che vanno a vivere nelle guerre, condividendo la vita direttamente con chi nel conflitto paga il prezzo più alto – i civili, gli ultimi e gli indifesi – sicuri che siano loro a possedere la chiave per risolvere i conflitti. “Sosteniamo scelte di resistenza nonviolente nei conflitti da parte della popolazione locale, lavorando per la riconciliazione e la fine dei conflitti. Entriamo nelle guerre come terza parte, neutrali rispetto alle parti in conflitto ma schierati rispetto alle ingiustizie subite e compiute”.
Operazione Colomba ha portato S. in giro per il mondo: è stata in Albania (per una campagna di sensibilizzazione contro il cd. omicidio d’onore), in Libano (a fianco dei rifugiati siriani, accampati ai bordi della città) ed in Palestina, in cui è rimasta per molto tempo.

Le colline a sud di Hebron

“In Palestina – mi racconta – viviamo nelle colline a sud di Hebron, dove vi sono 18 villaggi e poco più di 2000 abitanti, più della metà bambini, e poi donne e uomini che sono pastori o agricoltori, e giovani costretti ad andare a lavorare illegalmente in Israele per guadagnare quel che serve per vivere. Noi viviamo in uno dei villaggi più grandi, l’unico con strutture in cemento. Negli altri, gli abitanti sono costretti in grotte e in tende, vivono semplicemente e poveramente, e noi come loro”.
Le colline a sud di Hebron (nella regione della Cisgiordania) sono classificate come AREA C, sotto il controllo civile e militare israeliano: le forze di sicurezza sono israeliane (soldati, polizia e polizia di frontiera, i tribunali sono israeliani, il controllo civile è attuato dall’Amministrazione Civile Israeliana dei Territori Occupati che ha potere sulle risorse di base (acqua, elettricità), sulle strutture e infrastrutture (costruzione di case, pozzi, scuole etc.), sul territorio. “C’è un’occupazione civile: colonie ed avamposti abitati da coloni israeliani nazional-religiosi insediati su terra privata palestinese, che usano violenza contro i palestinesi e danneggiando i possedimenti con cui loro sussistono (ulivi, pecore, campi coltivati…)”.
Operazione Colomba è arrivata ad At-Tuwani nel 2004, dopo che già da anni gli abitanti delle colline a sud di Hebron avevano scelto di continuare a vivere sulla propria terra nonostante i tentativi di espulsione da parte dell’esercito israeliano e hanno scelto di resistere in maniera nonviolenta, attraverso la lotta popolare. “Qui diamo protezione quotidiana accompagnando pastori e contadini sulla propria terra, monitoriamo la scorta militare israeliana che ogni giorno da 10 anni accompagna a scuola i bambini palestinesi per proteggerli dalla violenza di altri israeliani illegali, collaboriamo con altre organizzazioni internazionali e con gli attivisti israeliani che da decenni lottano per la fine dell’occupazione israeliana, comunichiamo a livello internazionale le violazioni di diritti umani”.
La sua forza sta tutta in quell’attimo in cui sorride e strizza gli occhi, come se stesse raccontando dell’ultima festa con gli amici. Invece, mi parla delle difficoltà in cui si vive senza acqua, luce, mezzi di trasporto, mi racconta della violenza quotidiana e dell’impotenza di avere davanti un mostro enorme come la guerra in Siria “che costringe a fare i conti con la propria capacità di libertà e umanità davanti ai giovani soldati israeliani per farsi difensori dei diritti umani a fianco di palestinesi coraggiosi, creativi come solo la nonviolenza può renderti in una situazione di conflitto”.

Storia di un pane

Gli occhi di S. sono di un intenso azzurro e raccontano, duri, le sofferenze che hanno visto. Ma la lotta continua. Le chiedo se ricorda un episodio in particolare e se ha voglia di raccontarmelo. Ci pensa un momento, poi comincia. “Il villaggio palestinese di Um Al Kher è molto piccolo, meno di 300 abitanti di origine beduina, belli con la pelle scura e gli occhi chiari, sempre scalzi e forti. Vivono in baracche di lamiera e tende, dopo essere stati più volte forzati a spostarsi, su terre di loro proprietà a fianco ad una colonia israeliana in continua espansione. A fianco significa che le baracche palestinesi sono a meno di 10 metri di distanza dalle villette israeliane che vorrebbero espandersi e non vedere più nemmeno l’ombra delle baracche. Per questo motivo, il villaggio di Um Al Kher subisce continue minacce, violenze e demolizioni. Lo scorso inverno, i demolitori israeliani hanno preso di mira, tra le altre strutture, un taboon. Il taboon è il tradizionale forno dove le donne palestinesi cuociono il pane: è un tipo di forno antico dove le braci rimangono sempre ardenti e da dove esce un buonissimo pane, la base dell’alimentazione palestinese.
Il taboon è stato demolito una prima volta e ricostruito, usando le stesse pesanti pietre, da palestinesi, attivisti israeliani e volontari internazionali. Pochi giorni dopo è stato demolito una seconda volta e ricostruito più velocemente usando pietre, legno e plastica da palestinesi, attivisti israeliani e volontari internazionali. Una settimana dopo le forze israeliane sono tornate per demolirlo nuovamente, le donne palestinesi si sono interposte e sono state violentemente colpite e scacciate fino a che il forno non è stato demolito completamente. Palestinesi, attivisti israeliani e volontari internazionali sono tornati per ricostruire il forno con legno e lamiera. Quel giorno, mentre il forno per la terza volta veniva ricostruito, lì a fianco una donna palestinese ha acceso un fuoco ed ha iniziato a cuocere il pane su una piastra. Guardava le case israeliane a poca distanza da quel fuoco e dalle sue mani che facevano il pane, fino a che si è alzata in piedi, ha cominciato a sventolare il frutto del suo lavoro e fra le lacrime urlava: “Venite! Venite a mangiare il pane!”. Gli uomini e le donne attorno a lei sorridevano, non so se complici o per non piangere o non so perché. Io e il compagno che era con me ci siamo guardati, anche noi sorridendo, con gli occhi pieni di domande. Ancora mi faccio quelle domande: era una donna presa dalla disperazione? O forse davvero li avrebbe sfamati con quel pane se si fossero avvicinati quei coloni, fonte di violenza? Quanto amore serve per continuare ad urlare così forte che la guerra è un follia, senza arrendersi alla violenza inflitta o da infliggere?”

Simone Lo Presti

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