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Un colpo di stato nella terra degli uomini liberi

La legge marziale

In lingua thailandese il termine “thai” sta ad indicare la parola “libero”. In effetti, la libertà è sempre stata una prerogativa della cultura thailandese, tanto che, almeno formalmente, il popolo thai è rimasto vergine alla colonizzazione francese o britannica a cui, invece, si sono sottomessi i popoli delle regioni confinanti.

Alle tre del mattino del 20 Maggio 2014, Bangkok sta ancora dormendo. Sulla Ratchadamnoen Avenue, al quartier generale dell’esercito thailandese, è stato convocato lo stato maggiore. Si discute di una possibile applicazione della legge marziale per porre fine alla crisi politica che da mesi insanguina il Paese: dal dicembre scorso, infatti, le strade delle maggiori città thailandesi sono state teatro di violenti scontri tra le camicie rosse, legate all’ex primo ministro, il miliardario Thaksin Shinawatra, e le forze d’opposizione affiliate al Partito Democratico, d’estrazione conservatrice. Le due forze politiche hanno praticamente spaccato in due il Paese: il Nord dei coltivatori di riso con le camicie rosse, il sud a maggioranza musulmana con il Partito Democratico. A motivo di questa spaccatura stanno le ambigue politiche portate avanti dall’ex premier Thaksin Shinawatra che per più di dieci anni ha retto, direttamente o indirettamente, le fila del Paese. Se da una parte le riforme politiche di Shinawatra possono sembrare lodevoli (si pensi all’abbassamento del prezzo dei servizi sanitari), dall’altra, si sono rilevate estremamente fallimentari (basti pensare alla bolla economica sul mancato pagamento del riso ai coltivatori, o alla violenta repressione delle manifestazioni separatiste nelle provincie musulmane di Pattani, Yala e Narathiwat, al confine con la Malesia).

Il colpo di Stato

La mattina del 22 Maggio, gli occhi di tutti i thailandesi sono puntati verso gli schermi dei televisori. Un messaggio del comandante in capo dell’esercito, generale Prayuth Chan-ocha, viene mandato in onda su tutte le reti nazionali: il potere statale è ufficialmente nelle mani dell’esercito e la Costituzione è sospesa. A Bangkok, i carri armati sfilano per le piazze della città, mentre la radio alterna i proclami della giunta militare all’inno nazionale. L’esercito thailandese ha appena portato a segno un colpo di Stato, eppure, a parte qualche piccola contestazione, la popolazione non sembra essere scossa dall’evento. In effetti, la Thailandia non è nuova a questo genere di dinamiche: dal 1932, anno dell’instaurazione della monarchia costituzionale, nel Paese si sono verificati ben diciannove tentativi di colpo di Stato, dodici dei quali andati a segno. Quello che per un occidentale potrebbe rappresentare il massimo attentato alla democrazia, assume per un thailandese un valore totalmente diverso: il colpo di Stato diventa paradossalmente una tappa forzata nel processo democratico, il modo in cui la sovranità del re si impone al di sopra delle parti politiche, riassestando l’ordine dopo gli scontri. La figura del re rappresenta, in Thailandia, l’ago della bilancia del sistema politico, ed è proprio nella lotta alla successione dinastica che risiede uno dei motivi degli scontri di piazza degli ultimi mesi: l’erede al trono è, infatti, considerato vicino alle posizioni dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra, mentre il resto della famiglia reale è storicamente legato alle fazioni più conservatrici e al Partito Democratico. Alla lotta per la successione al trono, si affianca anche un altro motivo di tensione: la dilagante corruzione tra le cariche pubbliche, sia del partito filo-governativo di Shinawatra, sia nell’opposizione dei democratici.

Al di là delle tensioni interne, una sola cosa è certa: per le due superpotenze mondiali, Cina e USA, la Thailandia rappresenta un tassello fondamentale nello scacchiere globale delle strategie economiche e militari e, certamente, una reazione straniera al colpo di Stato non tarderà ad arrivare.

 

Giuseppe Cugnata

 

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