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Allarme “Rosso”

Uguale la matrice, uguale il mezzo, uguale il fine: destabilizzare tramite la guerra civile gli attuali governi sovrani, centrista uno, socialista l’altro. Non è la trama di un romanzo distopico, ma, forse, il fantasma di una guerra fredda che ritorna a farsi sentire. Il muro di Berlino è caduto da venticinque anni, ma in alcune zone del mondo i contrasti restano. L’est Europa e l’America Latina, restano, infatti, il campo di battaglia storico tra due modelli economico-sociali contrapposti. Da un lato Stati Uniti ed Europa, il mondo progredito, che da sette anni ormai soggiace ad una crisi finanziaria senza precedenti nella storia; dall’altro, i Paesi che con enormi sforzi cercano di emanciparsi creando un’alternativa al sistema politico, economico e sociale occidentale.
Nella fattispecie, stiamo parlando degli episodi di barbarie che imperversano rispettivamente in Ucraina e in Venezuela. Paesi opposti geograficamente, ma accomunati, in questi giorni, da sanguinose proteste. Ad accomunarli anche il nemico comune: l’estrema destra, che, con il beneplacito di Washington e di Bruxelles, ha come obiettivo quello di piegare le voci fuori dal coro nel panorama politico- economico.

Gli scontri in Ucraina

Il 18 febbraio è l’inizio dei disordini in Ucraina. Dopo due giorni di tregua, merito anche della liberazione di 243 attivisti, arrestati nei mesi precedenti (le proteste di piazza erano iniziate il 24 novembre scorso, giorno del mancato accordo tra Kiev e l’UE) mille manifestanti si riversano in Piazza Indipendenza. L’appartenenza politica è piuttosto eterogenea, dai centristi di Udar e Patria, ai nazisti di Svoboda. Iniziano i primi tafferugli, iniziano i primi arresti e i primi morti, trentacinque nella sola prima giornata fra manifestanti e poliziotti.
L’apice dei disordini, sfociati in una vera e propria guerriglia urbana, si ha solo due giorni dopo, il 20 febbraio. I morti salgono a più di cento e circa cinquecento sono i feriti. Gli agenti rapiti dai manifestanti sono sessantasette, cinquanta finiranno invece in ospedale. I manifestanti si rivelano in poche ore più che semplici studenti o comuni cittadini, la perizia nell’uso delle potenti armi da fuoco a loro disposizione e degli attacchi mirati compiuti non fa che avvalorare questa tesi.
I comunisti ucraini accusano Oleh Tjahnybok, leader del partito fascista Svoboda, di essere a capo della sanguinosa protesta, e di aver ricevuto incarico dal governo americano. Lo stesso Putin accusa la Nato e l’UE di colpo di Stato.
La Crimea, regione russofona e indipendente nell’est ucraino, minaccia la scissione e la richiesta di annessione alla Russia.

Il 21 febbraio, Yanukovich, firma un accordo con le opposizioni, promettendo le elezioni entro fine anno, la riduzione dei poteri del Presidente della Repubblica. Saranno, però, gli stessi partiti di opposizione, il giorno successivo, ad assediare con le armi il parlamento ed esautorare il Capo dello Stato dal proprio incarico. Nei suoi confronti verrà emesso dalla procura generale ucraina un mandato d’arresto internazionale con l’accusa di strage. Nelle stesse ore, Julija Tymosenko, leader del partito Patria e primo ministro fino al 2010, dopo una votazione favorevole della nuova maggioranza, viene liberata dal carcere (la donna ha subito nel 2011 una condanna a sette anni per abuso d’ufficio, ndr). L’ex Presidente della Repubblica, rifugiato nella parte orientale del Paese, grida al colpo di Stato, paragonando l’attuale situazione ucraina alla Germania nel ’33. Oleksandr Turčinov, braccio destro di Tymosenko, viene nominato Presidente della Repubblica ad interim, mentre diviene primo ministro il commissario Serhiy Arbuzov. Grave anche la fuga dal Paese di gran parte della comunità ebraica ucraina, la quale temeva una persecuzione da parte dei manifestanti neofascisti, anche a seguito dell’assalto di una sinagoga a Kiev.

La situazione in Venezuela

In Venezuela la situazione è analoga, così come è chiaro l’obiettivo delle manifestazioni: destabilizzare il governo. I motivi sono diversi e sono da ricercare tutti nella storia politica venezuelana degli ultimi anni, primo su tutti il “terrore rosso”.
Dal  1999 ad oggi, infatti, le vittorie politiche del PSUV (il partito che fu di Chavez e si trova ad essere adesso in mano al suo “erede” politico, Maduro) sono state molto importanti, e non dal solo punto di vista elettorale: i dati sul Venezuela, infatti, assicurano che negli ultimi anni il Paese ha sconfitto l’analfabetismo, ridotto la mortalità infantile, tolto dalla strada 5 milioni di persone e devoluto a favore dei cittadini il 42% del bilancio statuale. Il secondo motivo è il petrolio: il Venezuela possiede una delle più grandi riserve di petrolio di tutta la Terra, petrolio che dalla sua nazionalizzazione è stato fonte di sostentamento principale per lo Stato venezuelano, capace di far uscire quest’ultimo dallo scacco degli Stati Uniti e dalla morsa perversa delle multinazionali. L’accostamento di questi due fattori ha causato, recentemente, il sollevamento dell’ala destra del parlamento, dai moderati di Capriles, sconfitto alle ultime elezioni politiche da Maduro, a quella più oltranzista e fascista, capeggiata da Leopoldo Lopez, vicino a Washington, presente al golpe che rovesciò per pochi giorni Hugo Chavez nel 2002 e tuttora in carcere, in quanto diretto responsabile dei disordini delle ultime settimane.

Il golpe mascherato, dietro al quale si nasconde anche Uribe, ex presidente fantoccio filoamericano della Colombia, va avanti dal 13 febbraio e ha causato, finora, la morte di più di dieci persone. Nelle ultime settimane, i golpisti hanno fomentato le folle, cercato lo scontro fisico con gli apparati dello Stato (vedi gli scontri in piazza con la polizia) e attaccato fisicamente le sedi governative. Maduro ha accusato le destre di armare le falangi più estremiste della protesta, con il chiaro intento di fare vittime, dall’una e dall’altra parte della barricata, prova ne sia il fatto che gli omicidi avvenuti alcuni giorni fa, Montoya e De Costa (Chavista il primo e dell’opposizione il secondo) sono stati commessi dalla stessa mano. Oltre a Lopez e Uribe, altri nomi della politica Venezuelana spiccano dietro alle violenze di piazza di questi giorni: Maria Corina Machado, accusata di cospirazione da Hugo Chavez, e nemmeno a dirlo, particolarmente apprezzata negli Stati Uniti; Antonio Ledezma, sindaco di Caracas; Fernando Gerbasi, ex ambasciatore venezuelano a Bogotà e Ivan Carratù, collaboratore di Carlos Perez, ex presidente del Venezuela “saudita”. Un’intercettazione telefonica tra questi ultimi, svela che, già diversi giorni prima della manifestazione, si parlava dell’uccisione di alcune persone.

La manifestazione, inoltre, spacciata per pacifista, è portata avanti, come già visto in Ucraina, non da studenti, ma da militari addestrati, con l’intento di assaltare ospedali, case popolari e depositi di materiale destinato ai quartieri più poveri.
Lo stesso Capriles, vista la violenza delle proteste, ha rifiutato di schierarsi da parte dei manifestanti, mentre i sostenitori di Maduro, hanno sfilato pacificamente per le vie della Capitale.
John Kerry, Segretario di Stato americano, ha fermamente condannato il governo Maduro per la violenza delle forze armate durante gli scontri in piazza.
La storia si ripete.

 

Sebastiano Cugnata

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