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Il vento di Palagonia

Gli autobus dell’Ast sono bidoni di metallo circondati da turisti, studenti e lavoratori, sotto il sole delle dieci, a Catania. Specie i primi sembrano come incantati, naufraghi. Nessuno spiega loro dove andare, che cosa fare. «Si sapìa tutti l’orari, chi facìa l’autista!?» fa un conducente, che non riesce a piegare la lingua all’inglese di alcuni sventurati stranieri, né a dirci quanto dovremo aspettare. Siamo sospesi. Come la Sicilia.
Aspettiamo che arrivi il mastodonte della strada, quello che ci deve portare a Palagonia. Costo del biglietto andata e ritorno 6 euro e 20, per quasi un’ora di percorso. Una delle piaghe peggiori dell’isola sono i trasporti, oggi come ieri. Il 15 maggio è stata celebrata la festa della Sicilia, ma che cosa ci sia di preciso da festeggiare, noi non l’abbiamo capito, sembra che non sia cambiato nulla: Lombardo, il nostro governatore, scivola verso il fango delle accuse mafiose, trascinandosi l’onore e la decenza della nostra storia violentata; non funziona nulla sull’isola, non solo gli autobus o i treni, ma anche le strutture universitarie, la sicurezza nelle campagne e nelle città. Non c’è freno alla cementificazione di Ragusa, agli affari loschi di Catania, alla vergogna della repressione contro le pacifiche proteste a Messina, dove sono stati sottoposti a denuncia tredici militanti di Rifondazione; non c’è vero limite alla minaccia della mafia, che colpisce persino consiglieri di piccoli comuni, come accaduto a Caronia (ME), o coraggiosi attivisti della città, come a Trapani. E se si scoprono strane storie sulle miniere di Pasquasia a Enna, non mancano i sospetti sull’eolico a Trapani e i comuni sciolti per infiltrazione, come a Racalmuto (AG). Ma un vento di cambiamento, un libeccio caldo, sembra spirare in questi giorni, per via dei successi elettorali delle variopinte formazioni progressiste. A Palermo c’è stato un caso molto simile a quello di Napoli, con Orlando, un candidato estremamente forte. Nella Sicilia orientale ha colpito l’affermazione di SEL a Pozzallo contro Pd-Pdl e quello della lista Palagonia Bene Comune nell’omonima città calatina.
Tira un po’ di vento fresco anche tra i bus. Arriva anche quello che aspettiamo noi. Sembra di stare su una nave. Il veicolo si ciondola avanti e indietro, regalando le emozioni della crociera peggiore. La piana fuori Catania pare immensa. U lauri tagliato dalle falci meccaniche, sistemato in balle quadrangolari. Qualche giardino in lontananza. Il duro lavoro di pochi uomini, sulla terra, a pochi metri dal margine della strada. Le figure scure delle prostitute, per lo più africane, esposte sul ciglio prospiciente l’asfalto. E poi Palagonia, un po’ inclinata, spaccata in due da una strada. Sulla sommità, il quartiere della Matrice, zona popolare, una volta sacca importante di voti per Fausto Fagone, per i centristi.

Quando si arriva in un piccolo paese di diciassettemila abitanti circa è facile sentirsi addosso lo sguardo indagatore degli indigeni. Il muro dietro la fermata del bus è stato coperto dai manifesti del comune, sotto i quali si nascondono le facce dei candidati. Un signore con i baffi non smette di guardarci, mentre i passanti si voltano a lanciare un’occhiata. A due passi dall’ingresso del paese c’è il municipio; di fronte il municipio c’è un chiosco, decorato dai manifesti di Palagonia Bene Comune. A pochi metri da questo chiosco, su un balcone, campeggia una specie striscione con la faccia di Di Stefano, l’avversario che raccoglie l’eredità di decenni di potere centrista nel paese, gravato dall’imbarazzante peso delle condanne giudiziarie dell’ex sindaco Fagone, dell’ex sindaco Fagone padre e di tutto il clan dei fagoniani. Ha un volto statico, vagamente consolatorio, che, se inquadrato nel contesto, da l’impressione di un povero cristo mandato al macello, di un agnello sacrificale incosciente.
Il chiosco vicino il municipio appartiene al padre di Valerio Marletta, un uomo di mezz’età, con i baffi, calvo. Quando entriamo, la gente avverte la nostra presenza come aliena. Cerchiamo il signor Marletta. «Sono io» fa lui, con un’aria quasi insofferente, mentre pulisce il bancone. «Siamo di un giornale». Un signore consunto dal lavoro, con i capelli ingrigiti e un’allegria di naufrago addosso ci sputa con fare scherzoso queste parole, di colpo: «Se dovete fare qualcosa contro Valerio, niente, lasciate perdere». Da queste parti la stampa è tenuta in grande considerazione, sembra avere una certa influenza. In generale, tutti si dimostrano molto gentili con chi scrive. Ci interessa raccontare che cosa sta facendo Valerio, in una terra colpita dall’ombra lunga delle mafie: questo i nostri interlocutori lo capiscono. Il naufrago, con lo sguardo vispo sotto gli occhiali da sole, ci dice che ci può accompagnare al mercato, dove Valerio sta tenendo un banchetto. Tira fuori un fascio di banconote con le mani rovinate, paga ed esce fuori. Ha una panda vecchia, su cui deve aver attraversato parecchie trazzere di campagna. «Chistu ni passanu i comunisti» ci dice ridendo, riferendosi all’auto. «Iu fazzu u bracciant’agricolo» dice. Poi, sulle elezioni: «Siemu ‘nmienz’a merda; merda pi merda, votatilu, stu carusu. Si nunn’è bonu u ittamu, ma prima fatilu pruvari». Questa ultima battuta la dice mettendosi nella testa di un cittadino comune- perché il nostro naufrago è un supporter sfegatato di Valerio- e riassumendo magistralmente il pensiero dei palagonesi: se Valerio sbaglia, lo buttiamo via. Vuol dire due cose: Valerio è già praticamente sindaco, Marletta non può compiere il minimo errore.
Al mercato, Valerio è fermo di fronte l’ingresso. Fuma gli ultimi morsichi di una sigaretta, con il braccio su cui ha tatuata, a caratteri cubitali la scritta “Roots”. Ha le occhiaie scavate, è in piedi dalle sei e mezza. La speranza dei progressisti di questa città è un ragazzo sfinito, la corporatura decisamente leggera. La erre moscia, che la cultura popolare vuole legata al mondo dei ricchi e degli snob, caratterizza le sue parole, insieme ai tratti della parlata locale, che vuole le “g” tendere alla “o”, le “r” scomparire  nel nesso consonantico /rt/, dando /tt/. «Sta andando bene» dice, prima di scomparire per affari di burocrazia. Nicola, assessore designato alle Politiche Giovanili, ci fa il quadro della situazione: i fagoniani ci sono ancora, ma Fagone non c’è più, mentre «Valerio Marletta è il nuovo che avanza». La gente del mercato sembra essere d’accordo. Palagonia Bene Comune era già in testa al primo turno. In giro si parla di voto di protesta, dei venti milioni di debito del comune- circa venticinque, in realtà-, delle strade rotte. Più che di etica e di alti valori, cui si vorrebbe ammantare questa sorprendente vittoria, sembra la necessità economica a spingere i palagonesi a votare Marletta. Certo, a tanti gruppi politici piace il potere pulito, per cui la stessa FLI, dopo il primo turno, si è dichiarata in favore di Bene Comune. Ma la gente normale neppure dice la parola “mafia”, anche se conosce perfettamente la parola “dissesto” e, implicitamente, tutte quelle legate alla povertà. La coscienza dei palagonesi sembra essere viva, ma illegalità e povertà non sono ancora sinonimi. Un ragazzo ci dice «A noi non cambia niente», quasi a dire che le sue condizioni non verranno stravolte dal cambio di potere e che il suo problema principale sono i bisogni primari. E i bisogni primari paiono al centro dei discorsi dei cittadini. In sostanza, a Palagonia sta vincendo Marx, non Veltroni.

Torniamo al chiosco. Lì si tiene una sorta di riunione dei ragazzi del circolo Prc Rosa Luxemburg di Palagonia. Arriva Salvo Grasso, studente di Filosofia a Catania, consigliere neoeletto di Palagonia Bene Comune. «E’ un voto trasversale» chiarisce, mentre il tono della sua voce s’impone nella saletta del chiosco. Fa un po’ caldo. Dopo anni e anni di lotte, dalla parte degli studenti, dei migranti, dei precari, Salvo è oggi consigliere comunale, in un partito piccolo, con tutti i problemi di organizzazione e di denaro che questo comporta. Lui, dice, non ci avrebbe mai creduto ad una vittoria del genere. Adesso aspetta il risultato del ballottaggio, che, per via della legge elettorale, regalerebbe dieci consiglieri come premio di maggioranza al sindaco. La più giovane della sua lista a entrare in Consiglio sarebbe una ragazza del ’93. Cosa strana a Palagonia, dove la discendenza del clan Fagone ha creato un’armata di dinosauri. «Sai cosa si diceva a Palagonia? Si mi tajjiu i vini, nesci u sancu ‘i Faone» esclama Salvo, parlando della depoliticizzazione che ha subito il paese, che si è legato indissolubilmente a questa famiglia. “Se mi taglio le vene, esce il sangue di Fagone”. Ma ricchezza e sviluppo non sono arrivati: non si è riusciti neppure a mettere su un marchio di qualità per l’arancia con polpa rossa di Palagonia, in un territorio che produce principalmente questo tipo di prodotto.
Gli autobus non passano ogni cinque minuti da queste parti. Ci dobbiamo sbrigare, dobbiamo abbandonare l’ansioso fermento di questo paese. Lasciamo la compagnia del chiosco e ci avviamo verso la fermata. Qualche minuto d’attesa. E l’Ast ci riporta a Catania, con sussulti peggiori di quelli dell’andata, capaci di stimolare conati di vomito. L’ingannevole design moderno del bus carica su le ragazze nere della strada, dirette a Librino. Una volta giunti nel capoluogo etneo, a noi non resta che un altro purgatorio d’attesa, alla stazione degli urbani Ast, famosi tra gli studenti per la loro inefficienza. E fin qui, nulla di veramente interessante, per cui valga la pena raccontare il nostro ritorno. Poi, un ragazzo, forse uno studente, con la faccia per bene, da chierichetto, i capelli corti, si avvicina e ci chiede quando partirà il bisonte arancione. Ogni cinque minuti ha di che lagnarsi. Pare una radio, non sta mai zitto. «Ma questi autisti fanno quello che vogliono!» fa, rivolgendosi a noi, per l’ennesima volta. La colpa è anche nostra, noi studenti non facciamo nulla per farci valere, gli facciamo notare. «E che colpa abbiamo noi?». Pensi che in Germania i ragazzi non si incazzerebbero, di fronte a una situazione del genere? «Protestare qui non serve a niente. Qui non è cambiato mai niente». Allora non ti lamentare. Lui cala gli occhi e si allontana.

Giulio Pitroso

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