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Il velo islamico e la Corte Europea dei diritti dell’uomo

Il velo islamico e la Corte Europea dei diritti dell’uomo

Quando un simbolo diventa pericoloso

 

Introduzione

Perché il velo, e perché proprio il velo islamico, oggi suscitano tanti dibattiti e tante critiche? Sarà forse la libidine maschile, che mal tollera una così ingiusto freno alla propria, maschia, curiosità? Saranno forse le primarie esigenze di sicurezza stradale a suggerire una prospettiva più completa per i pedoni di questa frenetica scacchiera stradale? Sarà forse per via del caldo estivo che rende impossibile anche solo la vista di donne così incappucciate senza sentire, in prima persona, ancora più caldo? Naturalmente nulla di questo. Oggi il velo fa discutere perché a portarlo sono donne medio-orientali, perché ci ricorda l’Islam e i suoi precetti, perché ci sa di estremismo religioso e di terrorismo : vederlo nelle strade impone il riconoscimento che qualcuno, molto diverso da noi, si muove e vive nelle nostre città; ma se la xenofobia è una facile fonte di critiche da bar e di consenso per i politicanti, non certo suggerisce un dibattito intelligente: non basta per il sistema democratico, non basta per le garanzie costituzionali. Il diritto vuole ben altro per imporsi in un senso o nell’altro e gli argomenti dovranno avere fondamenti normativi e razionali, proiettandosi su una tabula oggettiva di diritti.

La Corte Europea dei Diritti dell’uomo(1), organo giurisdizionale del Consiglio d’Europa, è stata chiamata più volte ad esprimersi sul velo e sulla legittimità dei suoi divieti, mantenendosi pressoché coerente nel tempo con la propria giurisprudenza: il velo può essere vietato perché simbolo conduttore di (alcuni) significati incompatibili con l’ordinamento democratico protetto dalla CEDU(2) e all’interesse collettivo po’ ben sacrificarsi la libertà religiosa “pubblica” del singolo.

 

I veli

Un pezzo di stoffa posto sul capo a copertura di quei capelli ove, secondo un detto del Profeta, risiede un terzo della bellezza femminile.

Di veli ce ne sono tanti, molto differenti quanto a diffusione e “metraggio”, ecco i principali:

  • Il burqa innanzitutto, tanto scandaloso ai nostri occhi occidentali quanto poi poco diffuso nel mondo (praticamente solo in Afhanistan) . Di colore tradizionale blu, copre interamente chi lo indossa e ne cela gli occhi dietro una fitta griglia;
  • Il niqab, tipico dell’Arabia Saudita, copre interamente la figura femminile ma lascia visibili gli occhi;
  • Il chador (Iran), riferibile sia ad un mantello che copre tutto il corpo quanto un fazzoletto nero per trattenere i capelli: cinge il capo ma lascia libero il volto;
  • Lo hijab: non una veste bensì un  fazzoletto, che nasconde il capo, i capelli e le orecchie; è certamente il più diffuso qui in Europa nelle comunità musulmane: più comodo degli altri veli, è stato al centro di molte pronunce della Corte Europea.

 

Il velo come simbolo: la polivalenza semantica

Lasciamo da parte l’uso del velo come oggetto materiale: l’uso strumentale del velo – intendiamoci: per proteggersi dalla polvere o ripararsi dal sole –  è certamente ridottissimo e del tutto marginale.

Il velo, piuttosto, è un simbolo: come ogni simbolo, veicola significati inoculati nel significante; a volte il simbolo unisce (coerentemente con la sua radice greca sun-ballein: mettere insieme, unire), esprimendo l’appartenenza ad un gruppo; a volte invece, come riflesso al negativo dell’unione, rende evidenti le differenze e impone una disunione.

Il velo è un simbolo prettamente religioso: appartiene infatti ai precetti islamici fissati all’interno del Corano: Cor., XXXIII:59, Cor., XXIV:3, Cor.,XXXIII: 53 (3) per citare alcune fonti dal testo sacro ove  complessivamente si  contano 7 richiami al velo (hijab). È poi oggetto di un infinito dibattito fra i teologi musulmani non solo individuare quale velo meglio risponda alla prescrizione coranica, ma ancora se possa esservi una qualche obbligatorietà nel portare il velo alla luce dell’interpretazione dei versetti sacri.

Se il velo si mantiene nella tradizione “vivente” medio-orientale, non è stato del tutto sconosciuto al mondo occidentale: lo usavano le donne greche, quelle romane ed anche le donne sposate nel rito ebraico. Anche il cristianesimo ne conobbe l’uso: lo indossa spesso la Madonna nella iconografia cristiana, nonché sul velo la Bibbia ci regala un passo di San Paolo,  la I lettera ai Corinzi (4), che non è secondo al Corano né per la forza con cui si impone il velo né per la misoginia con cui ne giustifica l’obbligo.

Tuttavia in queste realtà progressivamente il velo è caduto in disuso, divenendo un mero dato storico e svuotandosi del significato religioso: sopravvive in alcune pratiche, tant’è che si indossa il velo nuziale nella celebrazione del matrimonio o  ancora si dice “prendere il velo”  quando si diventa suore, ma è sostanzialmente scomparso dalla nostra cultura, caduto in desuetudine o del tutto aggiornato (il velo nuziale non serve più a coprire, ma è piuttosto un ornamento estetico).

Come ogni simbolo, questi necessita di riconoscibilità: del mero oggetto materiale si deve comprendere il significato allegorico che porta in sé, perché diventi veicolo di significato.

Ancora, il simbolo è tendenzialmente visibile: la visibilità permette che da una dimensione privata e intima acquisti una valenza comunicativa sul piano sociale, caratterizzando il portatore, unendolo con la comunità,  oppure distinguendolo da essa a favore di un più ristretto gruppo di appartenenza.

Il maggiore profilo di problematicità del velo si riconduce nella sua polivalenza semantica. Posto che un certo bene è un simbolo, bisognerà comprendere quali e quanti significati veicoli nella società: infatti se il simbolo è veicolo di un concetto, allora vi sarà un mittente e un destinatario. Poco importa che chi utilizza il simbolo voglia comunicare un significata limitato e selettivo, fa la differenza piuttosto il messaggio percepito dal contesto sociale, ove nella dimensione collettiva si giocano i maggiori interessi istituzionali di un Paese. Quindi da una parte la libertà cosciente del singolo di esprimere una sua convinzione religiosa, dall’altra la difesa dell’ordinamento democratico, nelle sue istanze di laicità e pluralismo, dalle pressioni individuali e (a volte) involontarie dei simboli fraintesi in un abuso di significato; inoltre, se un simbolo incide necessariamente sulla dimensione collettiva, prescindendo dalla volontà del portatore, al contempo può trasmettere non solo un contenuto religioso (e quindi realizzare proselitismo) ma un ben più pericoloso e inaspettato messaggio politico (insurrezionale e antidemocratico).

L’uso del bene significante soffre perciò dell’impossibilità di controllare gli effetti del simbolo:  questi agisce autonomamente mentre le istanze del singolo di limitarne la portata semantica cedono di fronte alle imposizioni collettive di farne catalizzatore di messaggi strumentali ad interessi ben diversi da quelli in origine al portatore.

Individuato il vulnus di qualsiasi simbolo, e in particolare del velo, dove si fissa il punto di un difficile contemperamento fra la libertà religiosa di utilizzare un simbolo e la tutela dell’ordinamento democratico, ovvero dei diritti della comunità destinataria del simbolo? La risposta spetta alla Corte Europea, e certamente non potrà prevedere una risposta unica e indistinta per tutte le realtà di competenza, rilevando moltissimo l’attività distorsiva del contesto sociale che, subendo l’azione degli interessi in gioco, evidenzia in un simbolo – e ne recepisce all’esposizione – significati differenti, ove quegli stessi significati incidono variabilmente sulla realtà di pertinenza alla luce della tradizione democratica di un paese, della vulnerabilità culturale di un popolo, dell’esposizione del sistema a minacce insurrezionali-teocratiche. Da ciò non potranno mai essere equiparati, applicando un giudizio indistinto, paesi quali, per esempio, Turchia e Francia, dove nel primo la religione islamica è carattere integrante della cultura diffusa, nel secondo è icona (e pretesto) di uno scontro culturale; ancora nel primo la religione è declinata dalle forze fondamentaliste a strumento eversivo della precaria democrazia turca, nel secondo è terreno del difficile dibattito sull’applicazione delle garanzie costituzionali e sul mantenimento dell’ortodossia di valori francesi.

 

Corte Europea: difficoltà e limiti nella tutela del velo

Prima questione: portare simboli religiosi è un diritto previsto dalla CEDU e perciò tutelabile dalla Corte Europea? Può forse rientrare nell’art 9/1 CEDU (5)sulla libertà religiosa?

La risposta è stata a lungo negativa, cercando la Corte di connettere il velo alla generica libertà di espressione dell’art 10 CEDU, ed escludendo l’applicazione dell’art 9 CEDU in quanto il disposto non farebbe riferimento espresso al porto di simboli religiosi. Soltanto di recente la Corte sembra aver riconosciuto, sebbene in via solo incidentale, una qualche pregnanza normativa del velo in relazione all’art 9 CEDU e quindi previsto l’applicazione della tutela del primo comma (6).

Seconda questione: posto il riconoscimento ex art 9/1 CEDU,  il diritto a portare il velo può essere compresso ricorrendo all’art 9/2 CEDU (7)?

Certamente sì, ove l’art 9/2 CEDU enuclea le ipotesi in cui la libertà religiosa è limitabile: rinvia perciò a restrizioni necessarie, in una società democratica, a tutelare i fondamenti della stessa, quindi l’ordine pubblico, la salute e morale pubblica, ovvero i diritti e le libertà altrui riconosciuti e tutelati dall’ordinamento. Infatti ogni diritto ha un’estensione massima assoluta, i cui limiti sono individuabili in principi, quali quelli fondativi dello stesso sistema di tutela del diritto: non può riconoscersi un diritto fino al punto di compromettere l’architettura che lo afferma e tutela. Ancora un’estensione massima relativa, mutevole in base alle realtà in cui il diritto è concretamente esercitato, e prevede delle declinazioni del diritto nella misura in cui questo non violi (troppo) altri diritti: in presenza di più diritti, dovrà svolgersi un bilanciamento di interessi, così da individuare quale debba prevalere, e in quale misura, e quale debba ritrarsi, e in che misura sopravvivere: luogo del bilanciamento, è certamente la fattispecie concreta, ove lo scontro fra diritti si è fatto sentire, con tutte le peculiarità del caso. Il bilanciamento è svolto prima dall’autorità nazionale (all’esecuzione e nei successivi ricorsi davanti tribunali interni), poi, eventualmente, dalla Corte Europea, giudice in ultima istanza in forza del Trattato istitutivo.

Terza questione: se un simbolo esprime più significati, e di questi alcuni sono voluti, altri rigettati dal singolo, alcuni si legano ad un contenuto prettamente politico, altri soltanto religioso, altri ancora religioso ma declinato in una dimensione politica (il velo quale sottomissione della donna, quindi istanza di diseguaglianza sessuale) , quale significato rileva ai fini della tutela dell’art 9/1 CEDU e dei limiti dell’art 9/2 CEDU?

A quanto pare, rileverebbero tutti, in quanto tutti comunicati utilizzando il significante, in forza dell’impossibilità di controllare gli effetti del simbolo. Infatti, come visto prima, ben poca cosa è la carica semantica che il portatore riconosce al simbolo, giacché questi, introdotto nel contesto sociale, produce autonomamente significati, i quali sono eterodeterminati dal contesto sociale, dall’opera dell’opinione pubblica, dalle interpretazioni istituzionali, dalle strumentalizzazioni politiche, ecc. (un po’ come gridare prima del 2009 “Forza Italia”: poco importa gridarlo davanti alla televisione (foro interno) se per la strada c’è una manifestazione dell’omonimo partito… (foro esterno))

Quarta ed ultima questione: come decide la Corte sulle controversie relative al velo? Ovvero su quei ricorsi contro i divieti posti dall’autorità nazionale per impedire l’uso del velo?

Tenendo presenti le risposte ai precedenti interrogativi  – ovvero che non sempre la Corte ha ritenuto quello del velo diritto a manifestare la propria fede religiosa, che nell’usare il velo si comunica molto più di quanto personalmente si vorrebbe e tutti i significati trasmessi rilevano ai fini del divieto ex art 9/2 CEDU –  la risposta al quesito non è semplice. La Corte deve svolgere il già citato giudizio di bilanciamento comparando la libertà di portare il velo coi principi democratici propugnati dallo stesso Consiglio d’Europa, al fine di tutelare i beni giuridici oggetto delle tutele della CEDU.

Ma quali sono questi principi con cui contrasta (o contrasterebbe) l’uso del velo?

  • Principio di eguaglianza fra uomo e donna

Il precetto coranico non lascia scampo e, nonostante le linee interpretative più moderate (che vedono nel velo un invito all’umiltà e non un obbligo), il velo è simbolo astratto di sottomissione della donna rispetto all’uomo. Ammetterne l’uso significherebbe comunicare una vincolatività del precetto religioso nel subordinare un sesso all’altro(6) e, nell’influenzare passivamente le nuove generazioni, protrarre modelli arcaici e ingiusti di sottomissione sociale: se la subordinazione della donna verso l’uomo esiste fin tanto che sussiste il consenso sociale, ammettere il velo significa aggiungere un ulteriore argomento, dotato di notevole visibilità – come ogni simbolo – alla teorie androcentriche e ai loro sostenitori(8).

  • Principio di laicità

Laicità intesa secondo il modello francese (il modello italiano ha tutt’altro indirizzo, influenzato com’è il nostro paese dai Concordati con la Chiesa): neutralità delle istituzioni e degli spazi pubblici al fine di crearvi uno spazio asettico, privo di simboli “forti” e di ingerenze orientate. Il velo rientrerebbe nei simboli forti (9), e sarebbe perciò in grado, dove la maggioranza della popolazione è musulmana, di esprimere una forte pressione alla conformazione sociale per coloro che non lo usano(10), dove invece è un fenomeno limitato, minerebbe l’equilibrio religioso (inteso come assenza di ingerenze religiose) e costituirebbe atto di proselitismo.

  • Principio del pluralismo religioso

Aderendo alla laicità alla francese, lo spazio del pluralismo religioso diventa qualcosa di piuttosto misero; è infatti nel contrasto fra questi due principi che si consumano le maggiori critiche al modello francese, il quale è accusato di ridurre il pluralismo religioso a fenomeno meramente negativo: dove non è imposta la neutralità della laicità, lì può esserci un autentico pluralismo – si badi, non il pluralismo dell’esserci manifestando la propria libertà religiosa, ma dell’esserci senza poterla esprimerla -. Da ciò, ben poco spazio è riconosciuto, nel principio, all’uso del velo come esternazione di adesione ad una certa fede, in quanto lo stesso principio si vede notevolmente depauperato di significato.

  • Principio di sicurezza pubblica

Se potrebbe sembrarci esagerato ( e pretestuoso) vietare l’uso del velo nelle strade per motivi di sicurezza, soprattutto perché condurrebbe ad esiti paradossali (immaginatevi che qualcuno decida di vietare l’uso del casco perché ritenuto – per la collettività – non più sicuro…), tuttavia tale principio collide con la libertà religiosa in quei momenti in cui appare indiscutibile che si debbano svolgere certi controlli ed in un certo modo. In quest’ottica perciò si sono susseguite una serie di pronunce della Corte(11), tutte proiettate a vietare l’uso del velo (ovvero a legittimare i divieti nazionale) in presenza di controlli dell’autorità e verifiche di identità.

Detti principi vanno infine dosati in una difficile alchimia giuridica, al fine di definire se e quanto prevalgano sulla libertà religiosa: questo procedimento deve ispirarsi ad un ulteriore principio:

  • Principio di proporzionalità

Qui si gioca l’esito di qualsiasi giudizio della Corte, ove la proporzionalità segna il passaggio dalla mera dichiarazioni di principi alla tutela “reale” degli stessi.

La Corte ha sempre rifiutato di esprimere i criteri di proporzionalità in modo astratto, ovvero di operarne una sedimentazione giurisprudenziale, rinviando ad una loro individuazione in concreto in ciascun giudizio. Se tale soluzione non aiuta di certo la certezza del diritto, sembrerebbe un esito necessario data la stessa considerazione della Corte:

«non esiste una concezione uniforme del significato della religione  nella società »(12)

Se in altri contesti non si è dubitato della funzione uni formatrice della Corte nel garantire una (almeno) minimale tutela dei diritti in tutti i paesi membri del Consiglio d’Europa, qui piuttosto la Corte dimostra una notevole elasticità accomodante con le realtà nazionali, alla luce certamente delle notevoli difficoltà di un intervento in materia religiosa, per quanto esso sia necessario.

 

Considerazioni finali: qualcosa non funziona

È mia (modesta) opinione che qualcosa non funziona o – meglio – non sta funzionando a dovere.

Non posso che reagire con un certo turbamento nel vedere una Corte che, in materia religiosa, opera quale pedissequo ripetitore della battute nazionali, senza pronunce coraggiose, di quelle che sconvolgono gli equilibri sociali e impongono un dibattito – dove ogni dibattito è sempre costruttivo – nelle realtà interessante. Mi pare monca l’attività di un organo giurisdizionale che non abbia il coraggio di dire no e imporsi negli spazi riconosciutigli come voce autorevole di mutamento. Non amo l’incertezza che deriva da una costruzione giurisprudenziale di valori e criteri tutta proiettata alla totale elasticità dei giudizi futuri. Non amo le sentenze “politiche” e filogovernative, cosa che talaltro a volte la Corte ammette, candidamente (13). Non approvo il risultato di molti bilanciamenti, che considero cautelativi e poco garantistici della libertà religiosa di ciascuno: ritengo impossibile l’ammissione che da un bilanciamento derivi una compressione pressoché totale di un dei diritti in gioco, ove il nostro ordinamento costituzionale ci insegna a salvare il diritto sopraffatto almeno in una dimensione minimale. Se è fuori di dubbio ammettere la polivalenza semantica dei simboli e l’impossibilità di controllarne i messaggi derivanti, ciò non toglie che misura eccessiva è prevedere che un certo simbolo, per una parziale e involontaria illiceità per i significati prodotti, possa essere soppresso senza mezzi termini; ancora che ai fini dell’interdizione di un simbolo, non rilevi affatto la volontà del portatore nel significato da esprimere. Condivido le opinioni di coloro (14) che criticano la mancanza di concretezza del comportamento vietato, ove questi è colpito nel suo stadio astratto, in funzione presuntiva e preventiva, ben prima che possa produrre una qualche conseguenza negativa , ovvero una verificabile offensività; nonché di quelli che ripropongono una ridefinizione, più approfondita e interdisciplinare, della polivalenza semantica dei simboli, al fine di superare questa insopportabile associazione velo-fondamentalismo-terrorismo.

 

Marco Occhipinti

 

 

Note:

1)La Corte Europea dei diritti dell’uomo è stata istituita con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Vi aderiscono tutti i 47 membri del Consiglio d’Europa.

 

2)La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o CEDU è un trattato internazionale redatto dal Consiglio d’Europa e firmato a Roma il 4 Novembre1950; è entrato in vigore il 3 Settembre1953. È stato ratificato (o vi è stata l’adesione) da parte di tutti i 47 Stati membri (al 22 giugno 2007) del Consiglio d’Europa.

 

3)Cor., XXXIII:59

« O Profeta! Dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli, questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese. Ma Dio è indulgente clemente! »

Cor., XXIV:3

 

 

 

 

« E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi, sì da mostrare gli ornamenti che celano. Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti affinché possiate prosperare. »

versetto 53 della sura 33

«a Medina, nell’anno 5 dell’Egira, dopo aver sposato la cugina Zaynab, Muhammad non riesce ad allontanare i numerosi ospiti presenti nella propria casa e così, a un certo momento, decide di tirare una cortina che divida la stanza in una parte destinata a tre ospiti particolarmente invadenti e un’altra riservata alle attenzioni di Zaynab verso il marito. Fu lì che scese la rivelazione dell’ hijab, il velo: “Quando chiedete ad esse (le mogli del Profeta) un qualche oggetto, chiedetelo da dietro una cortina: ciò è più puro per i vostri cuori e per i loro”.»

 

4)I lettera ai Corinzi, 11:6:

«ma ogni donna che prega o profetizza senza avere il capo coperto fa disonore al suo capo, perché è come se fosse rasa. Poiché, quanto all’uomo, egli non deve coprirsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio; ma la donna è la gloria dell’uomo; perché l’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo . Giudicate voi stessi: è decoroso che una donna preghi Dio senza avere il capo coperto?Non vi insegna la stessa natura che se l’uomo porta la chioma, ciò è per lui un disonore? Mentre se una donna porta la chioma, per lei è un onore; perché la chioma le è data come ornamento. »

 

5)Art 9/1 CEDU Libertà di pensiero, di coscienza e di religione

1Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.

Peraltro l’interpretazione estensiva dei termini potrebbe condurre ad ammettere l’inclusione nell’ambito di tutela dell’articolo anche l’utilizzo del velo e degli altri simboli religiosi; tuttavia la Corte ha preferito a lungo applicarne una restrittiva, sui singoli termini inclusivi.

 

6)A titolo esemplificativo, caso Lucia Dahlab c. Svizzera, ricorso n.42393/98, decisione del 15 febbraio 2001.

 

7)Art 9/2 CEDU Libertà di pensiero, di coscienza e di religione

2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui.

 

8 )Un esempio della deviazione strumentale che può subire il velo, quando il suo uso è ricondotto ad un obbligo:

Poiché il Sublime Corano e l’insegnamento del Profeta, che Allàh lo benedica e l’abbia in gloria, sono vincolanti per la donna che creda nella provenienza divina del Corano e nella Missione apostolico-profetica di Muhàmmad. indossare il velo è, quindi un dovere preciso e inderogabile. La donna musulmana che indossa il velo, esprime per mezzo di esso in forma tacita, la sua identità islamica ed è fuorviante dall’lslàm il pensiero, purtroppo diffuso, che possa chiamarsi musulmana, la donna che non porta il velo, giustificandosi col dire che l’importante è avere fede dentro! Non hanno presente che il Profeta, che Allàh lo benedica e l’abbia in gloria, ha chiaramente disatteso questo pensiero quando ha detto:La fede non è presente dentro se non ci sono i comportamenti islamici, che ne segnalano la presenza interiore.

Al Turabi Hasan in Le donne nell’ordinamento islamico della società

 

9)Il governo svizzero usa l’espressione “simbolo religioso forte” per il velo in relazione al caso Lucia Dahlab c. Svizzera, ricorso n.42393/98, decisione del 15 febbraio 2001.

 

10)A titolo esemplificativo, caso Senay Karaduman c. Turchia, ricorso n. 16278/90, e caso Lamiye Bulut, ricorso n.18783/91, decisioni del 3 maggio 1993.

 

11)Sentenze in ipotesi di controlli impediti dall’uso di certi simboli, sempre a favore dei divieti e delle sanzioni nazionali: caso Suku Phull c. Francia, ricorso n. 35753/03, decisione dell’11 gennaio 2005 e caso Fatma El Morsli c. Francia, ricorso n.15585/06, decisione del 4 marzo 2008.

 

12)Sent della Corte europea dei diritti dell’uomo del 20/09/1994,Otto-Preminger-Institut c.Austria

 

13) caso Leyla Şahin c. Turkey, ricorso n° 44774/98.

 

14)Come argomenta il giudice belga Tulkens nella sua Dissenting Opinion relativa al caso Leyla Şahin c. Turkey, ricorso n° 44774/98.

 

Fonti:

  • Le lezioni di esercitazione di Diritto Ecclesiastico, tenute dalla Dott.ssa Gianfreda, fonte decisiva di chiarimenti, materiale e soprattutto scaturigine dell’interesse per questa materia;
  • La dispensa I simboli religiosi e il velo islamico della  Dott.ssa Bottoni;
  • L’articolo Il velo islamico di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo tra laicità e pluralismo di Angiolo Boncopagni;
  • L’articolo Il velo islamico nei luoghi educativi, la Turchia e le sfide della laicità di Silvia Angeletti;
  • Wikipedia (naturalmente) insieme a materiale sparso del Web

 

2 Comments

  1. Johnb0 Johnb0 31/08/2016

    That is some inspirational stuff. Never knew that opinions could be this varied. Be certain to keep writing. ecadedeagbgf

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