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TrasportAMI- Dalla stazione alla Cittadella

E’ un mattino chiaro a Catania. Sono le otto e mezzo. In via Etnea gli studenti scrutano l’orizzonte con gli occhi stropicciati, aspettando che arrivi un autobus. Vecchio e malconcio, forse; forse, un catorcio: va bene, purché funzioni. La maggior parte di loro deve salire su, arrivare alla Cittadella Universitaria, dove hanno sede cinque delle dodici facoltà dell’Ateneo, quelle di stampo scientifico. Tra laboratori e lezioni uno di questi studenti può rimanere fuori fino sera.
“Ce ne sono due autobus che portano alla Cittadella… Anzi, io ne conosco tre, ma il terzo non mi porta fino a dove devo arrivare io, anche se passa da via Etnea” racconta una diciannovenne di Professioni Sanitarie. Ha gli occhi scuri, abissali, e riccioli biondi, che le scendono lungo gli omeri. Sotto il trucco della matita, le sue occhiaie raccontano una vita dai ritmi serrati. “Mi alzo alle sette ogni mattina e prendo o il 432 o il 449, raramente il 702… Non torno a casa prima delle cinque, poi dipende dalle giornate” dice lei, mentre si porta le dita ossute sotto gli occhi profondi, “Gli autobus- ora lo vedi- sono sempre troppo pieni. Una volta non sono potuta salire sul primo, sul secondo neppure… Menomale che ho trovato l’altro, ma sono arrivata in ritardo al tirocinio”.
Gli studenti di Medicina e Chirurgia sono tenuti a stare quotidianamente o periodicamente in ospedale, nei tempi e nei modi stabiliti dal loro corso di laurea. Il Policlinico è una delle loro mete: è raggiungibile dal centro solo con il 432, che, quindi, si riempie fino a scoppiare. Lo aspettano con impazienza, guardando ogni tanto la pelle nera della strada. C’è un sottile strato d’ansia sui loro sguardi. Lui, il bus, arriva e tutti si preparano. E’ un bisonte arancione, pieno di gente. Riusciamo a salire a malapena. Siamo uno incollato all’altro e, ogni volta che sale qualcuno, lo spazio diminuisce. Non tutti timbrano il biglietto. A qualcuno riesce fisicamente impossibile. Stiamo stretti. Troppo stretti. A tre quarti del tragitto sale su un signore calvo con gli occhiali da sole. La ragazza me lo indica e mi dice a bassa voce che è un tipo sospetto, una specie di maniaco. Sono parecchie le storie di maniaci sull’autobus, mi dice lei. Alcuni si appoggiano sulle ragazze, altri tastano. Ma è tutto molto vago, è difficile capire chi, come, cosa, quando e perché in un contesto del genere, dove tutti sono ammassati come bestiame.
In alto a destra, sulla porta d’ingresso, c’è un cartello argenteo, vecchio e corroso dal tempo. Dice, con molta arroganza, che la capacità del bus è di 100 persone. Un signore, vecchio e corroso dal tempo anche lui, mi spinge con una certa forza ad ogni curva; non ci vorrebbe nulla a trovarci tutti per terra, ci basiamo su un’implicita forma di solidarietà, per la quale se io non cedo e non cede colui sul quale mi appoggio, nessuno cadrà. Vecchio e corroso è anche il motore ansimante del nostro bisonte arancione, che ci fa muovere a passo d’uomo sulla ripida salita di via Santa Sofia. Non sono né vecchi né corrosi gli studenti, che vengono vomitati giù davanti a uno degli ingressi della Cittadella Universitaria e al Policlinico. Il bisonte asmatico prosegue, semivuoto. Raggiunge punti periferici, i casermoni grigi, le scritte oscene, “sbirro di medda”; raggiunge punti alti, dai quali guardare l’Etna, chiara e innevata nell’aria tersa, dai quali guardare la vastità del mare. E poi arriva in stazione, punto d’origine e fine del viaggio. L’autista, chiuso nella sua uniforme, tiene a bada i nervi, quando gli chiedo quale altra linea mi porterebbe alla Cittadella. “449” sbuffa lui, senza dire nient’altro, prima di sparire tra le mura arancio dei fianchi di due autobus.

Il 449 è fermo, ma sta per partire. Si porta addosso una zingara con un passeggino; dentro il passeggino c’è un bambino piccolo con gli occhi grandi e scuri. E’ giovane, questa donna, sotto il fazzoletto colorato che tiene in testa. Sbuccia una banana al contrario, toglie le parti che non andrebbero bene per suo figlio e, con un cucchiaio, ne prende dei pezzetti minuscoli. Lo imbocca; poi, con la stessa tecnica con la quale si sbuccia una mela, ma usando il cucchiaio come coltello; intacca il frutto e ne cava altro cibo per il piccolo. L’autobus rumoreggia e i freni fischiano. Fischiano così forte, che non si sente nulla. Il motore brontola tutto il tempo, a volte ha l’asma. Ad un tratto, il bambino sembra soffocare, la madre gli fa sputare quello che gli è andato di traverso ed entrambi si ritrovano sporchi. I passeggeri si guardano fra loro. Una donna bassina, imbacuccata in una sciarpa viola, prende dei fazzoletti e li porge alla nomade. Nessuno dice nulla. D’altronde, con il rumore che fa il bus, non si capirebbe nulla lo stesso. La signora ha l’aria di chi è o è stata madre. Lei sa. Il gesto è compiuto. Tutto ritorna come prima. La gente sale, l’autobus si riempie. Il bambino si agita. Il rumoraccio dei freni lo ha spaventato, forse, insieme alla confusione. La madre si china sui suoi occhi, sfrega il naso contro quello del figlio e lui ride. Un altro nomade, salito da poco, dice qualcosa alla ragazza; lei si prepara a scendere. Muove la carrozzina con difficoltà, passa attraverso il muro umano dei passeggeri. E alla fine sparisce.
Dieci minuti dopo, un rumore assordante scoppia sul fianco destro, è uno stantuffo isterico. Si sparge nell’aria un odore nauseabondo. Il bus si svuota di nuovo. La strada ci scorre sotto i piedi. Ad ogni buca e ad ogni dosso, tutto vibra, noi risaltiamo quasi su noi stessi. C’è un bambino, un bambino sembra divertito dalla cosa. Per lui è un gioco. Intanto, il cattivo odore non cessa. Lui ride. Forse è meglio così. Per il nostro pachiderma arancio il viaggio sta per finire. Una fumata bianca esce da una zona vicina alla ruota. Ci fermiamo. “Ma chi è, scoppiammu?” fa un vecchio malandrino con il tasco verde. Tutti si lamentano. Restiamo tutti a terra, come dei naufraghi, a due passi dalle rocce vulcaniche. Ci poteva andare peggio, non è scoppiato niente.
Abbiamo la fortuna di salire su un altro bus. Questo ci riporterà in centro, forse. Nel rumore frastornante e continuo, è facile entrare in una specie di stato di trans, meditativo. Uno pensa, ecco. Pensa al perché delle cose. Nel frattempo vede un vecchio macilento che viene chiuso tra le ante meccaniche della porta d’uscita. Nel frattempo vede persone che si parlano a fatica; del resto, questo è un mezzo di trasporto, non un circolo di conversazione. Nel frattempo sale una ragazza, che si vuole laureare, perché non vede l’ora “di andarsene da questo Paese di merda”. Uno pensa, ecco. Fin quando non deve saltare giù dal bisonte e aspettarne un altro.
Alla fermata del 443 c’è una signora segnata dal tempo con la figlia, giovane nella mente, ma vecchia nel corpo. La donna-bambina si muove in continuazione: forse per lei questo è un momento divertente. Noi consumiamo l’ansia dell’attesa. Gli studenti fuorisede tengono i loro trolley ben fermi, si domandano quando arriverà. Questo bus ne porta tanti di loro alla stazione. Passa? Sì, passa. “Se passa” fa qualcuno. C’è un signore che non ha capito come arrivare al tribunale e sta sulle stampelle. Ha la coppola di lana mal sistemata su una capoccia grande come un melone; nel suo accento nisseno cerca di capire cosa fare, perché lui “Catania la sa sopra e sotto, ma con la macchina”. Adesso la macchina non può prenderla, dice, perché “è complicato girare a Catania con la macchina”. Sarà anche complicato guidarla, se si è azzoppati. Faceva il giardiniere, una volta. Adesso, beh, adesso, non c’è molto da fare. La signora segnata dal tempo si alza e vede in lontananza qualcosa. Tutti si muovono per vedere. No, s’è sbagliata. Il nisseno dice che non ha capito molto, che vuole che gli si spieghi il percorso della linea. La signora si rialza, dice che ha visto qualcosa. S’è sbagliata di nuovo. Ansia. “Ma arriva?” fa l’ex giardiniere. Speriamo. Ma sì, dai, arriva. Ogni venti minuti ne dovrebbe passare uno. “E’ che fa un percorso lungo” fa la signora. “A scola, mamma!” fa la figlia, indicando quella che sembra una scolaresca. E ride, mentre noi aspettiamo.

Di Giulio Pitroso

4 Comments

  1. libera libera 25/01/2012

    ma c’è MOMAT o qualcosa di simile e l’Ateneo studia pert i tuoi percorsi: o non è così?…

  2. Vincenzo Vincenzo 15/10/2012

    Non c’è niente che studia niente. Altro che MOMAT! Ad oggi esiste solo un tipo di abbonamento per gli studenti e in generale il personale universitario che si chiama UniBUS. Questo ti permette di avere 20 biglietti al prezzo di 12,50 euro e 40 al prezzo di 25 euro. Al di là di questo, il servizio dell’ AMT è disastroso. Oggi, ad esempio, le vetture attive del 432 erano 2 anziché 4 e quindi tutti quelli che lo prendono solitamente hanno dovuto aspettare chi trenta, chi quaranta e chi addirittura sessanta minuti. Per non dire che “DOVREBBE” passare ogni venti minuti. In realtà passa ogni 30 minuti e quindi tutto il percorso sfasa di 10 minuti in media. E poi nessuno che timbra il biglietto a parte i fessi, come me, che hanno ‘sto abbonamento UniBus e che pensano ancora che per avere servizi migliori si dovrebbe pagare. Vallo a raccontare alle migliaia di persone “free riders” che non si azzardano neppure ad avvicinarsi alla obliteratrice e salgono persino dal retro. Insomma, è la solita Italia che non funziona! Ovvio che la soluzione più razionale è quella di scappare da questo luogo! Ogni giorno a Catania trovi una prova, un incoraggiamento, un motivo in più per andare via. Che città!

    • Generazione Zero Generazione Zero 16/10/2012

      Cari ragazzi,
      il giornale è a vostra disposizione. Contattateci via mail a [email protected] e saremo felici di raccontare le vostre storie, che sono anche le nostre. A qualcosa raccontare serve, quindi rompiamo il muro del silenzio.

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