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Alcuni morti sono più importanti di altri

“Se è vero che il valore dei popoli si misura in tempo di guerra, allora questo deve valere anche per le singole persone e per i simboli, le istituzioni che queste rappresentano”.

Prendendo per vero questo assunto viene allora da chiedersi quanto valga la parola di Cateno De Luca, sindaco di Messina dal 2018.
Già, perché De Luca, lo stesso che vigilava zelante sull’applicazione e l’osservanza delle norme di contenimento a colpi di dirette social e droni volanti, lo stesso che si è scagliato apertamente contro il governo guadagnandoci una denuncia per vilipendio delle istituzioni, è poi venuto meno all’ufficio che tanto alacremente sosteneva di portare avanti.
Infatti, mentre il sindaco era abbarbicato sulla Madonna del porto di Messina a difendere la costa Ionica siciliana, il 13 aprile in città si sono candidamente celebrate le esequie funebri, con tanto di corteo, di Rosario Sparacio, fratello del pentito Luigi, boss mafioso tra gli anni ‘80 e ‘90. Si tratterebbe inoltre di un comportamento purtroppo non isolato dal momento che si è dovuto registrare un altro caso analogo, a Brescello, Emilia Romagna, comune sciolto peraltro nel 2016 per mafia. Qui, in una delle zone d’Italia maggiormente investite dall’epidemia, è avvenuta l’adunanza funebre per Paolo Pucci suocero di Francesco Grande Aracri, figura chiave della presenza ‘ndranghetista nella regione.

In merito al corteo di Messina comunque, al quale hanno partecipato quasi 40 persone e che sembra quindi aver avuto tutti i caratteri di un assembramento, De Luca ha rilasciato dichiarazioni ignave e di circostanza, secondo un modus fin troppo noto. L’avvenimento ha avuto una certa risonanza, forse anche per i pregressi atteggiamenti del primo cittadino che ha anche dovuto incassare le critiche di alcuni esponenti delle compagini sociali e politiche siciliane.
L’interrogativo, molto probabilmente retorico, che sorge però spontaneo è come un evento simile possa essere passato inosservato presso le autorità o come possa averne trovato la placida condiscendenza. Del resto o De Luca non se n’è ingenuamente avveduto e allora questo metterebbe completamente alla berlina la sua magniloquente severità o ha semplicemente fatto l’indiano fingendo di non notare ciò che invece avrebbe dovuto sanzionare. Delle due l’una.
E se davvero De Luca ha prestato il fianco a un costume che ha le proprie radici in una cultura di stampo smaccatamente mafioso, allora si è fatto acquiescente a un sistema di valori anacronistico e perverso. Non punire ma addirittura minimizzare l’esecuzione di una prassi che, pur tassativamente vietata, è stata ugualmente portata avanti, con l’unico scopo di ribadire certe convinzioni di status e superiorità sociali, non era certo ciò che ci saremmo aspettati.
Certamente si potrebbe eccepire e ritenere, non a torto, che se qualcuno è tanto sicuro della propria posizione da sfidare l’autorità dello stato, allora questi non si farebbe certo troppi scrupoli a ritorcersi contro chi dovesse cercare di punirlo. Ma, ammesso che tali fossero le motivazioni di De Luca, queste non possono comunque essere una scusante; è una coperta troppo corta, adatta solo a certe fasce sociali: un imprenditore può decidere di pagare il pizzo, un giornalista freelance può scegliere se approfondire un’inchiesta o meno. Un sindaco o qualunque altro rappresentante dell’ordine costituito invece non può non fare quello che compete al suo ruolo che, per inciso, ha assunto autonomamente senza che gli venisse imposto da nessuno.
Se De Luca ha temuto ripercussioni per sé o per l’ordine pubblico è umano comprenderne le ragioni ma non si può ugualmente scusarlo perché la lotta per l’eradicazione del fenomeno mafioso e delle scorie che questo riversa nel tessuto sociale passa anche per questo punto; è una lotta senza quartiere, senza compromessi che non può essere portata avanti da persone fallibili bensì da simboli, pertanto sordi a qualunque minaccia e indifferenti all’intimidazione.

Vincenzo Criscione

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