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101 anni fa la nascita della Cecoslovacchia: l’eredità comune a due paesi di Visegrad

Sul finire della Grande Guerra, 101 anni fa, la Cecoslovacchia proclamava la propria indipendenza dall’Impero Austro-Ungarico. Fino a quel momento la monarchia asburgica aveva regnato su un territorio multinazionale che vedeva governare la componente austriaca su un aggregato di ungheresi, polacchi, rumeni, sloveni, croati, ebrei ed italiani ereditato dal Sacro Romano Impero. Ciascuno di questi popoli era preoccupato di ricevere la giusta autonomia dal potere centrale e tali furono le tensioni interne che durante i momenti di crisi l’esistenza stessa dell’impero sembrava essere in pericolo. La fine della Prima Guerra Mondiale aveva decretato la sconfitta degli Imperi centrali e quello Austro-Ungarico si disgregò a seguito delle dichiarazioni di indipendenza delle sue diverse componenti nazionali (o dell’annessione ad altri stati come nel caso del Lombardo-Veneto con il Regno d’Italia). Il nuovo stato della Cecoslovacchia nacque il 28 ottobre 1918 e avrebbe dovuto tenere insieme diversi gruppi etnici e territori con diverse tradizioni storiche, politiche ed economiche: se i sostenitori del cecoslovacchismo erano riusciti a convincere gli Alleati e gli osservatori internazionali dell’esistenza di una nazione cecoslovacca la nuova entità statale finiva per comprendere una minoranza consistente di tedeschi (i Sudeti), di ungheresi e di polacchi.

La Prima Repubblica Cecoslovacca si organizzò attraverso una struttura centralizzata che si diffondeva da Praga e adottò il ceco e lo slovacco come lingue ufficiali. Tuttavia, la popolazione di lingua tedesca rappresentava la seconda minoranza del paese poiché superava in numero persino quella slovacca. Ben presto la predominanza della componente ceca nelle posizioni politico-amministrative creò un malcontento tra altre minoranze, alimentando il nazionalismo. Si formarono dei movimenti che chiedevano maggiore autonomia da Praga o addirittura il ricongiungimento con la madrepatria. Degli esempi furono quello del Partito dei Sudeti Tedeschi guidato da Konrad Henlein o quello del il Partito Popolare Slovacco di Andrej Hlinka. Questo malcontento venne, quindi, cavalcato dal Nazionalsocialismo per procedere all’annessione della Cechia nel 1939 e alla creazione della Slovacchia come stato satellite del Terzo Reich.

In seguito alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale lo stato Cecoslovacco venne ripristinato e cadde sotto la sfera d’influenza dell’Unione Sovietica, adottando però la denominazione di Repubblica Socialista Cecoslovacca soltanto nel 1960. Di lì a poco il riformismo di Alexander Dubček tentò un parziale decentramento della vita economica e politica che avrebbe portato all’invasione dei paesi del Patto di Varsavia e alle proteste non-violente della Primavera di Praga. Tra le proposte di questo periodo si era discussa anche la possibilità dividere il paese in una federazione di tre repubbliche (Boemia, Moravia-Slesia e Slovacchia) oppure in due nazioni distinte (Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca). Alla fine di questa stagione prevalse quest’ultima opzione e nel 1969 la Cecoslovacchia divenne uno stato federale che riuniva la Repubblica Socialista Ceca e la Repubblica Socialista Slovacca. Unica riforma del Socialismo dal volto umano ad essere portata completamente a termine nel 1993 quando le due repubbliche concordarono, attraverso un iter parlamentare, il Divorzio di velluto: definizione con la quale si allude alla Rivoluzione di velluto che nel 1989 condusse pacificamente alla fine del predominio del Partito Comunista della Cecoslovacchia e ripristinava il capitalismo.

Tante sono state le ragioni avanzate dal punto di vista economico, linguistico ed etnico per spiegare la scelta della divisione: ad esempio la vocazione industriale della Cechia che traina con la sua ricchezza quella prettamente agricola della Slovacchia, la diversità delle due lingue (sebbene molto simili tra loro) e la storica appartenenza alla parte austriaca dell’impero della prima contro quella ungherese della seconda. Ma queste non hanno mai messo veramente d’accordo il dibattito pubblico. Già in un sondaggio del settembre del 1992 soltanto il 36% dei cechi e il 37% degli slovacchi si era espresso in maniera favorevole alla dissoluzione e l’allora presidente Václav Havel decise di dimettersi piuttosto che supervisionare il processo di separazione. Nel 2015 venne persino istituito un movimento, denominato “Cecoslovacchia 2018”, per ottenere un referendum entro il 2018 che permettesse agli elettori di pronunciarsi sulla questione. Tuttavia, esso non raggiunse le 350.000 firme necessarie. Recentemente un sondaggio del 2017 ha mostrato come la percezione pubblica della separazione non è cambiata di molto rispetto a quella del 1992: soltanto il 42% dei cechi e il 40% degli slovacchi si sono pronunciati a favore.

I due Paesi mantengono ancora degli scambi economici e culturali importanti e ancora oggi il 28 ottobre è una festa nazionale e viene commemorata pubblicamente in entrambi i Paesi. Ad esempio la cerimonia di Brno, la seconda città della Repubblica Ceca, si svolge ogni anno in piazza Komenského di fronte alla statua di Thomas Garrique Masaryk, primo presidente della Repubblica Cecoslovacca e suo fondatore. I rappresentanti della città, della regione, dei consolati, delle università e delle associazioni si danno appuntamento per rendergli omaggio, deponendo dei fiori ai suoi piedi e cantando l’inno nazionale congiunto.

 

 

 

Le vicende della Cecoslovacchia affondano le proprie radici nel processo di formazione e di ripristino delle democrazie nazionali. Un processo lungo che ha impegnato tutto il Novecento. Esse rappresentano un caso esemplare che contiene in qualche modo tante questioni rimaste ancora in sospeso all’interno della stessa Unione Europea e per questo è bene che venga interrogato sia dal punto di vista degli odierni separatismi sia dei nazionalismi con recrudescenze autoritarie. Consente ancora una viva riflessione sulla questione della nazionalità: essa può essere costruita e de-costruita in molteplici modi, ma deve soprattutto essere sentita e condivisa. Uno sforzo che in Europa è durato oltre un secolo e che rischia di rinchiudersi in un angusto sciovinismo per placare le angosce dell’uomo post-moderno.

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