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Lotta per l’ambiente: uccisi 164 attivisti nel 2018

Nell’aprile del 2012 l’attivista Chut Wutty fu ucciso da un ufficiale di polizia militare a causa delle sue indagini su un’operazione illegale di disboscamento nella Cambogia meridionale. Nonostante l’indignazione per quell’assassinio l’indagine fu archiviata dopo pochi giorni. L’uccisione di Wutty ha spinto l’organizzazione no-profit Global Witness ad indagare su casi simili. Il risultato della loro indagine risulta preoccupante: soltanto a partire da questo secondo millennio sono stati uccisi più di 1000 ambientalisti. Il numero delle vittime non sembra arrestarsi. Nel 2014 furono assassinati 116 ambientalisti, 185 nel 2015 e tra il 2016 e il 2018 il numero è salì a 200. Amnesty International ha dichiarato nel rapporto 2016-2017 che Honduras e Guatemala sono i paesi più pericolosi per gli ambientalisti e attivisti.

L’attivista hondureña Berta Cáceres, che lottò per la difesa del territorio e per i diritti del popolo Lenca, venne inclusa dalla Commissione Internazionale dei diritti umani nella lista di persone in pericolo di vita dopo il golpe in Honduras nel 2009, dopo alcune minacce subite dalla polizia locale. Nel 2013 Berta si oppose fortemente al progetto Agua Zarca che aveva l’obiettivo di costruire alcune dighe idroelettriche sul fiume Gualcarque, luogo di importanza spirituale per la comunità Lenca. Le minacce di morte a Cáceres sono continuate fino al 2016, quando venne uccisa nella sua abitazione. Sotto la pressione internazionale, il presidente dell’Honduras Juan Orlando Hernández aprì un’indagine e attivò l’Unità per Crimini Violenti, coordinata anche dagli Stati Uniti. Il governo arrestò nove uomini tra cui un responsabile della DESA, la compagnia hondureña che fece parte del progetto Agua Zarca.

Il 31 Giugno 2018 l’attivista ucraina Kateryna Handziuk subì un attacco vicino casa sua, le venne lanciato dell’acido che le procurò lesioni e ustioni gravi su una metà del suo corpo. Mesi prima la donna aveva accusato dei politici di approvare illegalmente il disboscamento nella vicina foresta di Oleshky. Dopo molte proteste, grazie ancora una volta alla pressione internazionale, alcuni sospettati vennero arrestati, ma la famiglia di Handziuk sostiene che ci sia stato un insabbiamento per proteggere gli organizzatori dell’assalto che si troverebbero ai massimi livelli dell’élite politica ucraina.

Queste sono soltanto alcune delle tante aggressioni commesse in questi ultimi anni. Global Witness il 30 luglio 2019 pubblicò un reportage intitolato “Enemies of the State?” in cui venne inserita una classifica dei paesi in cui fu stato registrato il numero più alto di omicidi di attivisti ambientali nel 2018.

Le Filippine sono al primo posto, con 30 ambientalisti uccisi. Con il regime del presidente Rodrigo Duterte la situazione è peggiorata. Nel 2017 la sua amministrazione ha annunciato di voler assegnare 1.6 milioni di ettari di terra alla coltivazione industriale.

I crimini contro gli attivisti hanno dato vita ad una situazione divenuta ormai insostenibile. Secondo la segretaria generale di Karapatan Cristina Palabay “l’attacco ai difensori dei diritti umani è sempre più diligente, più brutale e senza paura. Coloro che li perpetuano sanno che resteranno impuniti, dal momento che i diritti umani hanno perso la forza e significato soprattutto sotto questo regime”. Luis Gilberto Murillo, ex governatore dello Stato Afro-Colombiano di Choco ed ex ministro dell’ambiente e sviluppo sostenibile, ha dichiarato su Democracy Now! che gli attivisti vengono uccisi “perché chiedono il rispetto dei loro diritti fondamentali, in particolare i diritti di accesso alla terra e di libertà nei loro territori […] Il modo per evitare questi omicidi è la piena attuazione del processo di pace. Esiste una commissione nazionale per garantire la protezione dei leader sociali nel paese [che] non è stata convocata regolarmente dall’attuale governo “.

Nonostante un lieve calo delle morti, Global Witness ha dichiarato che la situazione generale degli attivisti non è migliorata, sopratutto perché la lotta per difendere l’ambiente si sta facendo sempre più estesa. Una caso lampante è quello dell’Amazzonia, la più grande foresta pluviale tropicale del mondo, divenuta oggetto di forti scontri tra il nuovo presidente del Brasile Jair Bolsonaro e le popolazioni locali. Il leader di estrema destra ha espresso più volte l’intenzione di avviare un processo di sfruttamento delle terre amazzoniche allontanando alcune popolazioni indigene per cedere le loro terre a multinazionali e corporazioni. Bolsonaro ha dichiarato che “non esiste terra indigena dove non ci siano minerali. Non partecipo a questa assurdità della difesa della terra per gli indigeni”.

In Europa la situazione non sembra essere diversa, infatti nel Regno Unito gli attivisti anti-fracking sono stati presi di mira con accuse di terrorismo. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la politica del presidente Donald Trump è stata fortemente criticata in quanto mostra avversione a ogni politica di tutela ambientale. Nel 2017 era stato annunciato il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi (ad inizio 2019 la Camera dei Rappresentati ha approvato un disegno di legge con lo scopo di chiedere al presidente di implementare gli accordi di Parigi). L’Amministrazione Trump dichiarò di voler attuare delle modifiche alle norme per permettere un maggiore sviluppo economico e riuscì a far approvare alcuni cambiamenti che nel lungo periodo avranno effetti negativi sull’ambiente, come la legalizzazione dell’utilizzo dell’amianto per l’edilizia da parte dell’EPA (Environmental Protection Agency) .

I vari movimenti, da quelli ambientali a quelli che lottano contro la povertà globale, dipendono dalla capacità dell’individuo di informare ed essere informati mediante la libertà di espressione. In questa era di crescente globalizzazione si è visto il continuo aumento delle pressione per limitare la libertà di espressione. Amnesty International, nel rapporto 2016-2017, ha affrontato anche questo tipo di problema affermando che “molti ambientalisti hanno denunciato di essere stati vittime di minacce  e vessazioni per aver parlato apertamente di alcune problematiche. Hanno inoltre denunciato l’assenza di protezione da parte del governo”.

Jakeline Romero, attivista colombiana, ha dovuto affrontare minacce e intimidazioni per aver parlato e denunciato El Cerrejón, la più grande miniera dell’America Latina, accusata di aver causato sfollamenti di massa e provocato un impatto ambientali devastante. Nonostante questo continua a non arrendersi e a lottare; “Ti minacciano per farti stare zitto. Io non riesco a stare zitto. Non posso restare in silenzio di fronte a tutto ciò che sta accedendo alla mia gente. Noi stiamo combattendo per le nostre terre, per la nostra acqua, per le nostre vite”.

 

Erica Minchillo

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