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Il mezzo distrugge il fine

Il leader del PD ha annunciato: “comincerò un viaggio in Italia che mi porterà in tutte le centodieci province del Paese soprattutto per portare un messaggio di speranza e novità.” L’ex sindaco ha inoltre rimarcato che il PD è un forte partito a vocazione maggioritaria e che le alleanze a sinistra non sono indispensabili concludendo dicendosi sicuro che questo viaggio farà capire agli italiani quanto il PD sia nuovo rispetto agli altri partiti. Così nel 2008 Walter Veltroni lanciava la sua campagna elettorale che l’avrebbe portato a una sonora sconfitta con il PDL di Silvio Berlusconi.
Oggi dopo più di nove anni, due elezioni politiche perse o “non vinte”, cinque segretari cambiati, il “nuovo” leader del Partito Democratico, Matteo Renzi, ha lanciato la sua campagna elettorale in vista delle elezioni 2018 facendo una scelta drastica e sconvolgente: abbandonando l’autobus per il treno. Ebbene sì, pare che se finora il PD non è riuscito a governare senza fare alleanze con centristi con i quali non si ha praticamente nulla in comune, la colpa sia dell’autobus e non di campagne elettorali dal sapore di cloroformio che hanno visto il PD scavalcato a sinistra persino dal Papa. Pare che se in questi nove anni vari membri fondatori hanno abbandonato il progetto, se la base “piddina” ha istinti suicidi simili a quelli del Milan (e in entrambi i casi Berlusconi qualcosa centra…) la colpa non sia del fatto che quel “democratico” è stato inteso come uno scanniamoci fra di noi più che come confronto e che troppo spesso si è scambiato il partito per un parlamento. Assolutamente no, è colpa dell’autobus. Eppure verrebbe da domandarsi se la disaffezione di chi un tempo votava a sinistra, l’incapacità di esprimere una proprio chiara opinione sugli argomenti più pressanti e la mancanza di una vera identità di partito, che porta un membro del partito come Michele Emiliano a criticare pesantemente in pubblico ogni cosa che il suo segretario fa, non siano fatti dovuti all’unica scelta chiara fatta da questo partito e che nessun segretario ha davvero deciso di cambiare: vivacchiare sugli scontri interni. In questi dieci anni infatti si è parlato del PD non per le sue idee, ma per le frizioni fra le sue fazioni acuite da quando a capo del partito c’è Matteo Renzi personaggio carismatico che fa del dividere la fonte principale della sua dialettica. Dialettica che potrebbe anche funzionare se poi non si tergiversasse quando arriva il momento delle decisioni e si fa trasparire all’esterno solo un confuso e flebile messaggio tipico di un soggetto politico che Gramsci avrebbe definito affetto di “Boria di partito”. È questa la malattia del PD il cercare di arrivare al governo a qualunque costo senza dare motivazioni chiare alla gente sul perché dovrebbero votarlo, il dire tutto e niente per paura di rompere gli equilibri interni o inasprire pubblicamente il confronto interno in maniera così roboante da dare l’impressione di essere un partito sfasciato. In questi anni si è pensati di combatterla (la malattia) cambiando segretari, facendo primarie che aizzano ancora di più le lotte interne e formando governi con Verdini e Alfano, forse invece bisognerebbe fermarsi e chiedersi chi si è e dove si vuole davvero andare, lasciando perdere per una volta il mezzo per arrivare a governare e concentrandosi sul comunicare il fine, il perché si vuole andare al governo. Ma questo probabilmente sarebbe troppo faticoso per l’attuale gruppo dirigente e prepariamoci dunque a vedere il nuovo segretario del PD sorvolare il cielo con il suo nuovo deltaplano per la campagna elettorale del 2023, probabilmente in fuga dal suo stesso partito.


Giunio Panarelli

 

 

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