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Carlo Pisacane

Carlo_pisacaneLo hanno definito, con un’immagine piuttosto felice, il “Che Guevara” italiano. Un eroe, un combattente, un patriota (molto più di tanti altri che si sono professati tali). Socialista, libertario, figlio delle teorie di Proudhon, influenzò Bakunin, professando l’intervento delle masse popolari, soprattutto di quelle contadine, nella lotta contro i nemici stranieri ed interni (i Savoia) della “sua” futura Repubblica. E questi elementi furono “procreatori” del Comunismo Anarchico e della successiva formazione della Federazione Italiana della Prima Internazionale. Stiamo parlando, ovviamente, di Carlo Pisacane (Napoli, 1818 Sanza, Salerno, 1857). Non molti sono memori pienamente della sua sfortunata epopea, e ancora meno coloro che, nell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia (?), hanno attribuito a questa emblematica figura i meriti di cui era, senza dubbio, degno. L’opera biografa più importante che è testimonianza di vita, morte e “miracoli” pisacaniani rimane Carlo Pisacane nel Risorgimento Italiano (1932) di Nello Rosselli. Partendo da questa, come da altre fonti, potremmo suddividere la vita del nostro “Ernesto” in 5 fasi:

1) Militanza nell’esercito napoletano; 2) Fuga da Napoli e dall’esercito borbonico con la compagna Enrichetta di Lorenzo; 3) Attività di militanza in Lombardia e nella breve Repubblica Romana, accanto a Mazzini e Garibaldi; 4) Vita errabonda e vagabondaggio in Inghilterra e Francia; 5) Periodo a Genova, progettazione dell’insurrezione meridionale e spedizione a Sapri.

L’itinerario appena mostrato ci figura in dettaglio la temperie culturale del tempo, e, allo stesso tempo, l’epifania di un personaggio che impersona diversi “miti”, tra i quali quello dell’eroe romantico in perenne e concitata fuga, del valoroso combattente ed infine del martire in nome di un ideale di libertà che trascendeva qualsiasi altro fattore. Tutto partorito da quella “Propaganda del fatto” a lui così tanto cara. Componenti varie s’intersecano senza sosta con questi aspetti fondamentali, quali il rapporto di quasi abnegazione della compagna nei confronti del marito “guerriero”; la relazione altalenante, ma quasi sempre intrisa di stima e rispetto reciproco, con Giuseppe Mazzini; il sentimento di rivalsa nei confronti della “tirannia interna” prospettata da un eventuale futuro monarchico. Genuina, anche se magari di modesta cultura, la sua tempra, che viene fuori nei suoi scritti, e soprattutto nel suo famoso Saggio sulla Rivoluzione (1854). Citiamo testualmente: “Ogni individuo ha il diritto di godere di tutti i mezzi materiali di cui dispone la società, onde dar pieno sviluppo alle sue facoltà fisiche e morali”. Una sintesi perfetta della nostra analisi. Fu dunque coraggioso, ma soprattutto, purtroppo, anche terribilmente sventurato. La spedizione meridionale, su cui secondo Pisacane si ponevano le basi di un’insurrezione popolare di dimensioni nazionali, fu perseguitata dalle sciagure. Impresa avviata a Genova, assieme al solito Mazzini ed al siciliano Rosolino Pilo (protagonista di alcuni errori navali al limite del grottesco), fu portata a (rovinoso) compimento in terra campana assieme a Giovanni Nicotera (uno dei pochi superstiti che, in tardo periodo post-unitario, deplorevolmente, rinnegherà totalmente le sue esperienze passate) e Giovan Battista Falcone, giovanissimo, appena ventunenne, anche lui martire a Sanza. E fu questo luogo, quel maledetto 2 luglio 1857, il teatro di un massacro che non risparmiò quasi nessuno. Incitati dal parroco don Francesco Bianco a suon di campane e di falsi avvertimenti sull’arrivo di briganti in città, pronti a derubare ed a violentare le donne, la popolazione incolta ed ignorante, quella stessa per cui egli stesso si batteva e diede la vita, lo ammazzò senza pietà, inerme e disarmato come i suoi compagni. Quasi un revival, pertanto, della contro-rivoluzione Sanfedista, capeggiata dal cardinale Fabrizio Ruffo, che distrusse l’effimera Repubblica Partenopea del 1799. Ciò che ai nostri giorni permane del nostro caro patriota fu comunque un’impresa che scaldò gli animi, preparando il terreno, anche se con conseguenze totalmente divergenti da quelle prospettate solo tre anni prima, alle spedizioni degli anni 1860-61. Il motto “Libertà ed associazione”, diktat di questo “poeta maledetto” della Rivoluzione, rimane ancor oggi, come il suo proferitore, simbolo di una lotta che trascende le epoche ed i secoli, indomita, anche se, purtroppo, ancora oggi, mai completamente riuscita appieno.

Simone Bellitto

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