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Quando facebook si mangiò la tv

Di Mariagrazia Romano

Quando c’era soltanto la tivù tutto era più facile. Berlusconi faceva vedere le tette a Colpo Grosso (“Se le avesse avute”,diceva Enzo Biagi, “avrebbe fatto vedere pure le sue”). Walter Veltroni se la prendeva con gli spot dentro ai film trasmessi in tv, perché “non si interrompe un’emozione”. Oscuri deputati e senatori in cerca di notorietà, sconfitti oppure no, nel frattempo dettavano alle agenzie di stampa anatemi ora contro quella trasmissione, ora contro quel comico. Ma alla fine, in viale Mazzini sapevano tutti come arrivarci. Al settimo piano del palazzo abitavano (ci abitano tutt’ora) amici, compari, sottoposti: spesso bastava una telefonata per risolvere le cose.
Facebook invece sta a Palo Alto, California. Ammesso che Internet possa stare da qualche parte. Al di là del suo fondatore, Mark Zuckerberg, i suoi dirigenti non sono noti neppure ai più incalliti degli utenti. Che sono davvero tanti, 350 milioni nel mondo, 12 milioni dei quali stanno in Italia (Facebook è il social network più diffuso dalle nostre parti), la metà dei quali ci passano sopra una notevole quantità di tempo. Numeri da fare invidia all’audience televisiva. E di fronte ai quali i politici, privi di consueto accesso alla stanza dei bottoni, alternano in egual misura senso d’entusiasmo e un altro di smarrimento. Per dire: i più, di destra e di sinistra, si sono aperti il loro profilo; qualche altro è ancora lì che prova a capire come chiuderlo.
Nel gennaio 2009 il senatore Udc Giampiero D’Alia legò il suo nome ad un emendamento al decreto Sicurezza che dava al ministero dell’Interno facoltà di obbligare i provider a “utilizzare gli appositi sistemi di filtraggio” per reprimere casi di incitamento e apologia via Internet di associazioni mafiose, terroristiche, eversive, di odio etnico e religioso. D’Alia ebbe tra i suoi alleati Gabriella Carlucci e il presidente del senato Schifani. Per dire. Tuttavia, accogliendo i dubbi su quali potessero essere gli strumenti di filtraggio realmente efficaci, e le cautele su provvedimenti di polizia non vagliati dalla magistratura, l’emendamento già votato al Senato non passò alla Camera.
Lontani i tempi in cui Walter Veltroni, affrontava la cosa con entusiasmo obamiano, accogliendo decine di migliaia di amici sul suo profilo, organizzando una festa in una discoteca romana come fosse la cena coi vecchi compagni delle elementari. Facebook ha cominciato a fare notizia quando venne fuori l’esistenza di gruppi che inneggiavano a Riina e alle Brigate Rosse, ma anche di “fan degli stupri di gruppo”, persino il famigerato “Immigrati clandestini, torturarli è legittima difesa”, ispirato dalla sezione della Lega Nord di Mirano (Venezia), che contava fra gli amici Umberto Bossi e Roberto Cota. Lo stesso figlio di Bossi venne all’onore delle cronache per aver ospitato sul suo profilo il videogioco “Rimbalza il clandestino”. “L’amicizia si da in buona fede a tanta gente”, si giustificò al riguardo il capogruppo leghista Cota.
Né andò meglio al coordinatore dei Giovani Democratici di Vignola, Matteo Mezzadri, costretto a dare le dimissioni dal suo incarico con tante scuse quando si scoprì che sulla sua pagina aveva scritto: “Ma santo cielo possibile che nessuno sia in grado di tirare una pallottola in testa a Berlusconi?”. Scherzava, senza dubbio. E si seppe subito che era in buona compagnia. Il ministro della giustizia Alfano andò in Parlamento a denunciare l’esistenza del gruppo “Uccidiamo Berlusconi” che, per la verità, era ispirato dal film Shooting Silvio, ma faceva brodo per invocare di nuovo l’intervento della polizia postale e della magistratura.
Si scoprì che anche il Governo aveva fatto qualche mossa per conto suo, ed era riuscito ad arrivare fino a Palo Alto. Sempre lo scorso anno il sottosegretario agli Interni Mantovano annunciò che una squadra di tecnici di Facebook aveva tenuto un corso della polizia postale italiana e che il rapporto che si era creato con il social network aveva consentito di chiudere gruppi razzisti senza passare attraverso tradizionali e complicate rogatorie internazionali.
Infine Berlusconi, e i Berlusconiani, soprattutto, pur essendo voraci consumatori di social network come tutti gli altri, hanno definitivamente decretato la pericolosità di Facebook nei giorni segnati dall’attentato al premier. Prima, assistendo all’organizzazione e al successo del “nobday”, messo in piedi anche grazie ai contatti nati sul social network, nonché taciuto e beffeggiato dalle televisioni. Poi, gridando allo scandalo dei gruppi pro-Tartaglia, il pazzo, l’attentatore del Capo. Gruppi che avevano la sola colpa di rendere pubbliche le battutacce che altrimenti ci si sarebbe scambiati dandosi di gomito al bar.
“Televisione contro Rete, come in un filmaccio di supereroi” hanno scritto i sociologi che hanno studiato l’influsso dei social network sulla maniera di far politica, che attraverso i social network l’opinione pubblica è in grado di auto organizzarsi, di sfuggire cioè all’influenza che la televisione ha sull’agenda e sulla retorica della politica.
Eppure, dopo l’attentato a Berlusconi, un disegno di legge presentato dal senatore Pdl Ruggero Lauria proponeva la reclusione da 3 a 12 anni “per chi istiga a commettere delitti contro la vita e l’incolumità delle persone”. Pena aumentata se il fatto è commesso servendosi di comunicazione telefonica o telematica. Contemporaneamente nasceva il gruppo “Libera rete, libero stato”. Naturalmente su Facebook anche loro. Simbolo: Camillo Cavour incorniciato di viola. A pochi giorni dalla sua fondazione, il gruppo contava poco più di 10 mila iscritti e lanciava un sit-in di protesta contro la minaccia di interventi legislativi su contro la Rete.
Il viola è sempre il colore del “nobday”, del popolo viola, dell’opposizione telematica al berlusconisco. Accusato senza mezzi termini dal centrodestra di aver avvelenato il clima, di essere un catalizzatore d’olio, persino di favorire un revival anni ’70, nelle parole del presidente del Senato Schifani (allora si parlava di “brodo di coltura” del terrorismo), tutto Facebook (in rappresentanza della Rete) è nuovamente finito nel mirino del governo, e in particolare ha suscitato l’interesse del Ministro dell’Interno Maroni. Quest’ultimo, nei giorni dell’attentato aveva promesso che sarebbero stati presi severi provvedimenti contro i cattivi telematici. Ma ha dovuto infine fare silenziosamente marcia indietro di fronte all’evidenza di non essere né in Cina e neppure in Iran, e si è limitato ad annunciare un futuro “codice di autoregolamentazione” dopo un incontro prenatalizio con i principali operatori italiani. Un finale che era in qualche modo prevedibile, ma merita almeno altre tre osservazioni.

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