È forse possibile immaginare un mondo in cui l’uomo, anziché trovare delle soluzioni ai problemi, cerchi di agire preventivamente per non crearne di nuovi?
Il giovane regista australiano Damon Gameau risponde a questa domanda nel suo documentario del 2019 intitolato “2040 – Salviamo il Pianeta”. Di solito le proiezioni al futuro rappresentano il mondo che verrà come una distopia, come la perversione di un presente già degenerato. Gameau vuole invece dimostrare che il nostro tempo è già, almeno in potenza, la realizzazione della propria versione migliore e che in questo passaggio aristotelico potenza-atto, i protagonisti siamo proprio noi.
“2040” è una lettera alla figlia di 4 anni che mostra un’alternativa alla narrazione che ci viene abitualmente raccontata dai media, una proposta di miglioramento che va ben al di là del tradizionale e sterile dibattito sulle cause o sui possibili catastrofici scenari, focalizzando l’attenzione sulle risposte concrete di cui il nostro pianeta ha bisogno e che cerca ormai da molto tempo. Gameau parte alla scoperta di luoghi e comunità che hanno messo a punto strategie innovative, mostrando che quello di salute è un concetto olistico, che lega insieme indissolubilmente uomo e ambiente. Le proposte spaziano dalla rete condivisa di pannelli fotovoltaici nei villaggi del Bangladesh che permette di auto-alimentarsi sul piano energetico, al servizio di car-sharing che potrebbe portare in futuro a un migliore utilizzo delle aree che sono adesso riservate ai parcheggi, a una riduzione del traffico, dell’inquinamento atmosferico e in ultimo anche delle nostre spese, fino all’idea semplice ma poco diffusa di seguire una dieta a base prevalentemente vegetale cercando di ridurre al minimo il consumo di carne.
In questo nuovo mondo che verrà, ciascuno è consapevole del proprio utilizzo delle risorse grazie a degli schermi posizionati nei luoghi pubblici al posto dei cartelli pubblicitari che creano una sana competizione in cui a vincere non è il migliore bensì chi dimostra maggior rispetto e spirito di collaborazione. Un mondo in cui il soggetto dei discorsi non è l’”io” ma il “noi”. Ciò che colpisce di questo documentario è il fatto che l’indagine è condotta in maniera insolita e diversa, intervistando delle voci pure e sincere: i bambini. Le loro parole, ricche di proposte e speranze, si riducono tutte a un unico comune denominatore, cioè l’idea di un mondo “più bello”, più equo, più ricco di opportunità per tutti. E se come diceva Wordsworth “il bambino è il padre dell’uomo”, c’è tanto da imparare dai loro sogni.
Questo momento storico di stop forzato delle nostre vite e delle nostre attività apre un bivio dinnanzi a noi, come Ercole nel dipinto di Carracci, possiamo scegliere tra il piacere, e dunque riprendere le nostre abitudini di sempre una volta scampato il pericolo, e la virtù, per costruire un mondo di cui, come ci insegna Heidegger, non siamo i padroni ma i pastori, e dunque esseri solo di passaggio. È proprio il carattere di transitorietà dell’esistenza che ci impone di fare retromarcia, di pensare anche ai bambini, ovvero alle generazioni future e a ciò che lasceremo loro, e di agire, come suggerisce Hans Jonas riformulando l’imperativo kantiano, in modo tale che gli effetti delle nostre azioni siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana. Abbiamo un ruolo in questa staffetta e non possiamo permettere che chi verrà dopo debba correre più velocemente per rimediare alla nostra inerzia. È una nuova idea di energia, che è piuttosto una sinergia, ovvero quella che si sprigiona quando si combatte e si cerca di cambiare, ma insieme.
Martina Vinci
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