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Vittime e carnefici: il massacro dei musulmani in Birmania

I media occidentali ci hanno, da sempre, voluto mostrare i popoli musulmani come nemici della civiltà industrializzata, autori di attentati terroristici e sudditi proni a regimi dittatoriali, ma spostandoci al di là del Gange e della Penisola indiana, i ruoli cambiano radicalmente. Esiste, infatti, un Paese chiamato Myanmar (Birmania, fino a qualche tempo fa), nel quale il musulmano perde lo storico stereotipo da invasato integralista per passare dalla parte del buono, del maltrattato e del perseguitato. Dal 1948, anno dell’indipendenza birmana dal Regno Unito, i musulmani, residenti nel Paese da secoli e in netta minoranza rispetto alla maggioranza buddhista, sono stati perseguitati, con dinamiche che riportano alla mente gli ordini del Reich nazista. Nell’estate dello scorso anno, gli scontri si sono nuovamente accesi ad ovest del Paese, nello stato confederato del Rakhine. A trarne le peggiori conseguenze sono stati i Rohinga, musulmani ai quali non è mai stata concessa la cittadinanza birmana e che, pertanto, vivono in una sorta di limbo tra la Birmania, che vorrebbe espellerli e il confinante Bangladesh, che li respinge alle frontiere. I conflitti armati dell’estate scorsa, seppur affievoliti, non sono mai stati spenti del tutto e i fatti accaduti nelle ultime settimane ne sono la prova. Gli scontri si sono spostati dalla periferia del Paese verso il centro: nella sola città di Meikhtila, tra le maggiori del Myanmar, si contano, infatti, decine di morti e migliaia di sfollati. Ma perché tanto odio dei buddhisti, nei confronti della popolazione musulmana? Storicamente i buddhisti hanno relegato i musulmani ai margini della società, considerandoli gli artefici della povertà dello Stato, ma i motivi degli ultimi scontri risultano, più che altro, di natura politica. In molti credono infatti che dietro i conflitti ci sia la sconfitta alle ultime elezioni del leader Thein Sein (capo del regime militare che da anni governa il Paese) contro Aung San Suu Kyi (premio nobel per la pace nel 1991), per non perdere la poltrona, Thein Sein ha poi dichiarato le elezioni non valide, ma la paura di aver perso credibilità nei confronti della popolazione è rimasta. È per questo motivo, per unire il popolo buddhista sotto un unico fronte anti-islamista di cui Thein Sein risulta l’artefice, che il regime ha innescato le lotte, prima nelle periferie del Paese, spostandosi via via verso i maggiori centri. Anche Aung San Suu Kyi risulta essere in una posizione alquanto ambigua rispetto ai protagonisti degli attuali scontri: se il premio nobel si schierasse apertamente con la minoranza islamista, la maggioranza buddhista che l’ha eletta al Parlamento si rivolterebbe contro, allo stesso modo, risulterebbe un comportamento non adatto ad un premio Nobel l’appoggio ai carnefici buddhisti. Ma la cosa che paradossalmente dà più nell’occhio, al di là delle scelte politiche dei leader birmani, è l’estrema noncuranza con cui le testate italiane e internazionali, hanno liquidato la faccenda. Salvo qualche breve riga in fondo alla pagina, quasi nessun mezzo di informazione si è degnato di spendere parole sulle tragiche vicende e il motivo è facilmente intuibile: per ora ci sono i Marò in India e sui Paesi vicini è meglio tacere.

 

Giuseppe Cugnata

 

 

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