Al Quirinale è costretto a entrare senza cavallo: nessun ingresso scenografico come a Sanremo oltre un anno fa per aprire i festeggiamenti dell’Unità d’Italia tramite il concorso canoro nazional-popolare. Nel “palazzo più bello del mondo”, con i presidenti Napolitano, Schifani e Fini in prima fila, Roberto Benigni si esibisce per l’elitaria platea della liturgia politica. Un umanista tra i relatori della cerimonia di chiusura, un uditorio composta da politici, chierici, magistrati e corazzieri.
Al teatro Ariston era stata esegesi: le parole di Goffredo Mameli e la musica di Michele Novaro, il Canto degli Italiani spiegato al suo popolo, tramite servizio pubblico, tentativo di innestare germoglio di identità dove forse non è mai attecchito. Voce per i molti, pedagogia.
Stavolta, dal leggio incorniciato dai marmi del palazzo, è narrazione, performance di riporto e trasporto; raccontare dal 1860 al 1948, dal Risorgimento alla Liberazione e alla Repubblica, attraverso le parole dei protagonisti.
Apertura con la didascalia dell’annessione italiana sulla Gazzetta Ufficiale del 17 Marzo 1860 per portarci indietro di un secolo e mezzo e sentire la voce delle idee che l’intera Europa ammirò: Cavour, Mazzini e Garibaldi. Suoni che veicolano messaggi politici, negli scenari decadenti di una politica priva di responsabilità e onore, snaturata dal proprio senso civile. Una fine opera di selezione per tre brevi illuminazioni, bengala nel tetro pantano dell’esercizio di governo.
Il conte Camillo di Cavour rivendica la via parlamentare e si dichiara contrario alla dittatura in favore dell’unica forma che permette l’esercizio di libertà, il sistema di rappresentanza con gli eletti nelle Camere. Quanto mai odierno in una democrazia che ha alla base un consumato distacco tra cittadini e rappresentanti e che si trova governata da tecnici non scelti da voto popolare. Il carbonaro Giuseppe Mazzini, perseguitato in vita e obliato in morte, e la sua idea di patria: non solo entità territoriale (o economica) ma unità di sentimento amorevole tra connazionali, rinsaldata dal voto, dall’istruzione e dal lavoro, colonne portanti dell’asse. Immagine dissolta dalle pressioni disgregatrici della diseguaglianza sociale, sepolta dall’analfabeta relativismo della moderna società, schiava dell’inoccupazione e dell’astensione dilaganti. Il generale Giuseppe Garibaldi e l’antesignano progetto di un’Europa di pace e collaborazione che rinuncia ad investire sulla morte per rilanciare la vita. L’inutilità delle forze armate di guerra in un contesto di pace perpetua, di armonia tra nazionalità, e la sua soppressione, a vantaggio di nuove risorse sociali. Un dibattito vecchio un secolo e mezzo, ormai confinato all’eresia, nell’Unione della trojka che impone alla Grecia al tracollo finanziario l’acquisto di materiale bellico tedesco e francese, nel decreto economico per salvare la nazione dal default, nell’era in cui un cacciabombardiere costa come quattro asili nido. Un coro di parole che giunge alle poltrone più alte, con un messaggio inequivocabile: chi l’Italia l’ha creata, l’aveva anche immaginata con un futuro diverso.
Poi è un salto dal trampolino del sogno e del progetto dell’unità: dal Risorgimento alla Prima Guerra Mondiale, dall’eroico orgoglio all’orrore della tragedia. L’animalesca lotta nelle trincee, con ragione e passione riposti nel sacco da militare trasportato nelle battaglie ai confini alpini. Accantonati nell’attesa della fine, barlumi di speranza di una nuova esistenza d’amore, nei versi di Clemente Rebora.
E ancora giù, con il Vittoriano che diventa Altare della Patria, monumento che era del re, dedicato al Milite Ignoto. Uno, rappresentante del tutto, del mucchio di quei giovani cadaveri persi nei meandri della guerra, senza sepoltura, senza lacrime a coprirli. Il segnale di un’Italia generosa e riconoscente agli agnelli sacrificati mentre indossavano divise con tricolori cuciti addosso.
Infine quattordici cognomi di intellettuali che, dritti sulla schiena, rifiutarono il giuramento di fedeltà al partito nazionale fascista, su milleduecentocinquanta professori universitari italiani nel 1931 – Trentini, Salvemini e Nitti lasciarono le università già nel 1926. Nel buio della democrazia, mantennero accesa la luce della cultura e del sapere, liberi dal giogo del potere violentemente liberticida del duce. La satira di Trilussa è lo strumento di narrazione delle leggi razziali del 1938. Grottesche e ridicole: al riso amaro il commento della tragedia del futuro genocidio. La parabola narrativa di morte si conclude con i sacrifici della Resistenza: giovani martiri di democrazia nelle intime lettere ai familiari prima di venire fucilati. I partigiani morti per la libertà, sereni di fronte alle condanne perché sicuri di essere innocenti. Un tributo di sangue pagato dalla nazione significativo. “C’è voluta tutta questa morte e tutto questo amore perché potessero essere scritte queste parole”, quelle dell’articolo primo della Costituzione. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, la cui sovranità appartiene al popolo.
Andrea Gentile
Be First to Comment