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Libia – Il nuovo Apartheid in una “primavera” infernale

Una rondine non fa primavera. E parlando della Primavera Araba Libica, nemmeno parecchie “rondini” potrebbero farlo. Ad un anno dall’inizio dei moti, ed a sei mesi dalla morte di Muhammar Gheddafi, sembrano più gli interrogativi aperti che le questioni chiuse fra i nostri “vicini di casa” al di là del Canale di Sicilia.

Fra gli innumerevoli problemi che angosciano la nuova Libia, in mano ai ribelli del CNT, in una fase di confusionaria transizione, ci preme analizzare in quest’articolo un grave problema, tutt’al più ignorato dalla stampa ordinaria: il caso del razzismo nei confronti delle popolazioni di “pelle nera” da parte della popolazione autoctona libica, e dai nuovi “padroni” del post-rivoluzione.

Se ne è parlato, il 2 Aprile 2012 in una parte della puntata speciale sulla Libia del programma Presa Diretta, a cura di Riccardo Icona. Ne fa in microscopica parte cenno Claudio Accogli, il giornalista dell’ANSA che nel suo Gheddafi Game Over, diario di bordo della “rivoluzione libica”, riporta: “Nella sacca a sud di Tripoli che strangola i gheddafiani in ritirata dalla capitale […] vediamo alcuni prigionieri, seduti con le mani legate dietro la schiena, tutti di pelle nera. Forse sono mercenari, forse inservienti. Sono visibilmente terrorizzati.” Per il resto, il nulla assoluto.

Ma entriamo nel merito dei fatti. Durante i mesi caldi della guerra civile, sembra che alcuni mercenari al seguito di Gheddafi abbiano compiuto omicidi e stupri collettivi a danno rispettivamente di uomini e donne della città di Misurata. Una piccola parte di questi mercenari, secondo le fonti dei ribelli, proveniva dalla cittadina di Tawharga, 250 km a est di Tripoli, 35.000 abitanti circa. Il problema principale nasce dal colore della pelle degli abitanti di questa città, cui la quasi totalità è di pelle nera.

Qui sorge la questione a nostro parere, ma non solo, dell’illogicità che caratterizza la totalità delle guerre (in)civili. Da novembre in poi, la cittadinanza di Tawharga è praticamente tenuta in ostaggio dai ribelli. Malversazioni, perquisizioni, intimidazioni e persino omicidi sono stati il pane quotidiano della popolazione autoctona, costretta ad una sorta di esilio forzato nelle periferie misere della capitale libica. Circa un migliaio di loro vive in un magazzino abbandonato in condizioni indecenti, sulla strada per l’aeroporto tripolitano. Buona parte degli uomini, dei giovani della zona è detenuto, o addirittura “sparito”. Sono rimaste solo donne, bambini ed anziani a piangere la loro cattiva sorte e a chiedere di continuo notizie dei propri cari.

La situazione, denunciata anche da Amnesty International, è inauditamente grave. Non rientra, per giunta, nelle priorità di Moustafa Abdel Jalil, capo del governo ad interim, porre freno a questa catastrofe. Anzi un revanscismo razzista sembra coinvolgere tutta l’aria che si respira nel nuovo stato appena formato. Bersaglio di vendette ed abusi anche altre città che durante la rivoluzione erano schierate sul fronte dei lealisti al regime, esempio su tutte la città di Sirte.

Basta pensare a secoli di segregazione razziale nei “civilissimi” USA, oppure al mezzo secolo di apartheid che ha insanguinato e avvilito il Sudafrica e la Namibia, rimasto in vigore dal dopoguerra fino agli inoltrati anni ‘90. Agli occhi nostri e della gente che ha occhi per vedere le cose per come veramente stanno, ci sembra che tutto questo sia semplicemente il volto del nuovo apartheid, di una nuova segregazione razziale, che, purtroppo, sembra solo all’inizio.

Gli uomini impareranno mai dai propri errori? O continueranno (come pare) a nutrirsi d’odio verso il diverso, l’altro, brindando all’alba di una nuova consolidata e aberrante xenofobia? Questo, al momento, è il ritratto di una nazione immersa in una “primavera” infernale. Ma nel mondo tristemente globalizzato dei giorni nostri, il passo da loro a noi è breve.

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