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Autoritratto Siriano: il docufilm del popolo siriano

Mentre la diffusione della pandemia di Covid-19 ha sconvolto gli stili di vita e le economie mondiali, mettendo sotto pressione i nostri sistemi sanitari, i governanti e i media hanno adottato la retorica della guerra per mobilitare il senso civico e la solidarietà dei governati. Forse anche la paura. Dall’Italia alla Francia, passando per l’UE, sono state proclamate veramente le parole:“Siamo in guerra”. Nel frattempo la stessa pandemia ha portato alla sospensione di molti conflitti in corso nei diversi continenti. Uno di questi era tornato al centro dell’attenzione all’inizio del 2020: la guerra in Siria. Una guerra civile scoppiata in seguito alle primavere arabe del 2011 e diventata ben presto un conflitto internazionale. Nel 2014 esce un docufilm,“Autoritratto siriano-Eau Argentée” , apertamente schierato dalla parte dei ribelli siriani che racconta il primo anno di questa guerra. 

 

 

“Autroritratto siriano-Eau Argentée” è un film di Ossama Mohammed e di Wiam Bedirxan, presentato fuori competizione al Festival di Cannes del 2014. Il film racconta in lingua araba il primo anno della guerra civile scoppiata in seguito alla primavera siriana del 2011. Dall’assedio di Dara’a all’assedio di Homs: vengono documentate le sofferenze e la completa precarietà della popolazione civile siriana, esposta alle bombe e alle carneficine, e le angherie commesse dai soldati dell’esercito regolare sui ribelli per reprimere la rivolta.

Le riprese sul campo provengono dagli smartphone e dalle cineprese degli attivisti siriani o dei soldati di Bashar al-Assad che vengono caricate sul web. Un regista siriano,Ossama Mohammed, segue la rivoluzione dall’esilio parigino raccogliendo quelle immagini e montandole per raccontare la Siria dei nostri giorni. Il suo disagio dialoga con Wiam Bedirxan, un’attivista curda con la quale è in contatto tramite Facebook. Il suo nome in curdo è “Simav”, che significa “acqua argentata” e da cui prende il titolo questo autoritratto siriano. Lei ha deciso di non lasciare la città di Homs e di documentare con le sue riprese la vita durante l’assedio.

Per reprimere la rivolta il regime di Assad utilizza il “metodo Hama”, già collaudato da Assad padre (Hafiz al-Assad) contro l’insurrezione organizzata dai Fratelli Musulmani nella città di Hama nel 1982: questo metodo prevede di dividere la città in settori presidiati da cecchini e tagliare le risorse idriche ed elettriche per spingere la popolazione a lasciare la città che poi viene rasa al suolo. In questo modo vengono eliminati tutti i legami della popolazione con gli spazi urbani e indebolito il senso di comunità. Ma gli abitanti di Homs resistono. Simav si impegna a documentare gli eventi e a mettere sù una scuola per i bambini del quartiere. “Per il regime una telecamera è un arma” dice la ragazza al regista e da questo dialogo nasce l’idea di un film-documentario come forma di partecipazione alla guerra civile dalla parte del popolo siriano.

Un popolo, quello raccontato da Ossama Mohammed, che si era riversato nelle strade per manifestare contro il regime di Assad chiedendo la sospensione delle leggi d’emergenza e più libertà. “Non vogliamo né pane né carburante, vogliamo solo libertà” gridano i manifestanti raccontati dal regista siriano mentre percorrono i 42 chilometri che li separano dalla città di Da’ra, luogo della manifestazione. Un soldato dell’esercito siriano racconta di come gli sia stato ordinato di sparare sulla folla, ma lui e altri commilitoni hanno gettato le armi e si sono uniti ai manifestanti: “Non c’erano bande armate! Non abbiamo visto neanche un coltello! Cantavano solo per la libertà e per rovesciare il regime!” spiega. Intanto diversi intervalli mostrano i bombardamenti, gli spari sulla folla e le conseguenze di questi; c’è lo spazio persino per i momenti di relax dei soldati dell’esercito regolare ma anche per le torture che gli stessi riservano ai ribelli all’insegna del motto “Bashar, o bruceremo il paese”.

La regia di “Autoritratto siriano” sta tutta nel montaggio: 1001 piccoli film girati da persone che vivevano direttamente il dramma della guerra, tanti momenti raccolti nell’immediatezza dell’istante stesso in cui accadono e che precipitano lo spettatore all’interno del teatro di guerra. Il montaggio articola gli episodi delle vittime e quelli dei carnefici in una narrazione in cui si inserisce il dialogo tra Ossama e Simav. L’immagine sporca, sfocata, sgranata, frammentaria dei 1001 filmati contribuisce a caratterizzare il film nella sua precarietà, la realtà mediata da un mezzo diventa esperienza di un pathos che non è generato dallo sceneggiatore o dalla messa in scena. Non c’è nessuna messa in scena, non c’è un set da allestire: ci hanno già pensato i produttori, i registi e gli scenografi della guerra.

Si tratta di un docufilm impegnativo, crudo e reale. Si tratta di un docufilm che va comunque visto perché permette di uscire dalla logica dello svago e dell’intrattenimento in cui si è appiattita la nostra idea di consumo cinematografico. Rompe con la consuetudine di uno spettatore che, per scongiurare il rischio della noia, viene continuamente imboccato dalla produzione di distrazione e di divertimento. Ci dimostra che il cinema può essere uno strumento collettivo, di partecipazione e di testimonianza straordinariamente al passo con i tempi. Ci ricorda che la guerra è un’altra cosa.

Massimo Occhipinti

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