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Intervista a Mauro Biani: L’editoria e il ruolo della satira all’interno della società

Lo scorso weekend si è svolta, presso l’ex cartiera Latina, una tre giorni di eventi come se ne vedono pochi nella capitale. Una serie d’iniziative di solidarietà, sostenibilità, creatività ed impegno politico e sociale. Immerso nel parco regionale dell’appia antica, il complesso appare come un’oasi felice di persone, storie e volti. Passando da uno spazio all’altro entro in una grande sala dove da uno schermo vengono proiettate delle immagini. Dopo uno sguardo più attento rimango colpito da quelle sagome che percepisco come familiari. Incuriosito mi avvicino e mi siedo su un posto libero. Non ci metto molto a capire che quel signore che sta parlando così confidenzialmente con i presenti è Mauro Biani, vignettista de “Il Manifesto” e “L’Espresso”, se il suo volto mi era fino a quel momento sconosciuto, il tratto della sua matita è inconfondibile. Una volta finito l’evento mi avvicino e colgo l’occasione per fargli qualche domanda:

 

In una recente intervista Marco Travaglio ha affermato che, sebbene in passato abbia avuto un’importante scopo politico e sociale, il ruolo de “Il Manifesto” all’interno della società attuale è ormai scaduto, consigliandogli di “andare in pensione”. Come risponde a quest’attacco che definisce “Il Manifesto” anacronistico?
(Ride) Sinceramente non ho letto l’intervista, mi sembra strano (che Travaglio parli de “Il Manifesto” n.d.r) perché di solito i giornali non si nominano, soprattutto i giornali in competizione. Non lo so perché lo abbia detto, ma io non sono d’accordo. È vero che “Il Manifesto” è un piccolo giornale, c’è stato un momento in cui era diventato un po’ troppo provinciale, ma ora sta migliorando. C’è stata una difficoltà ad adeguarsi a delle forme di giornalismo che non erano proprie della testata, ma questo è un discorso che potrei farti per qualsiasi giornale. L’editoria si deve adeguare, bisogna capire come veicolare l’informazione per sopravvivere. Dal punto di vista politico, secondo me, “Il Manifesto” non è mai stato così attuale: c’è chi ci ritiene troppo duri, chi troppo morbidi o c’è chi ci etichetta come “i comunisti”, ma il manifesto è molto di più. Tuttavia, a mio parere, questo “gioco al massacro” non è positivo, l’augurarsi che un giornale chiuda non giova a nessuno. Io personalmente vorrei che non chiudesse nessun giornale, perché più spariscono i giornali, più si legge di meno. L’editoria è già in crisi e il fuoco amico non aiuta di certo.

Qual è la vignetta che più la gratifica, quella che in questi anni le ha dato più soddisfazione?
Le vignette che gratificano sono innanzitutto quelle che vengono capite, quelle che vengono colte da un punto di vista sensoriale. Sono quelle più semplici, ad esempio questa qui –cerca all’interno del suo portatile l’immagine vincitrice del premio internazionale “miglior vignetta europea 2011” – ecco io non avrei mai pensato potesse riscuotere un tale successo. All’epoca scrivevo per “Liberazione” e la feci in occasione dell’invasione militare in Libia uno dei tanti disastri commessi. Ecco questa è intuitiva, pulita, ed ha riscosso grande successo anche per questo. Le vignette che mi gratificano di più sono quelle che mi permettono di avere un contatto con le persone, che mi danno la possibilità di lasciare qualcosa.

Quanto è sottile il confine tra satira e offesa? E quanto è difficile fare una vignetta che tratti temi delicati, senza urtare la sensibilità delle persone?
Secondo me ogni vignettista mette sé stesso nelle sue opere, ognuno di noi ha un background alle spalle, storie ed esperienze che gli permettono di vedere e pensare ad un fatto in maniera differente da qualsiasi altro. Detto questo, secondo me si coglie il senso anche se spesso si viene attaccati magari senza motivo. Perché il discorso del “buon gusto” non vale per la satira, non può valere. È ovvio che poi ci sono anche delle regole: più l’oggetto della satira è lontano da noi, più non ci sentiamo toccati, non ci colpisce direttamente e questo della distanza (temporale e fisica) è un po’ una garanzia per il vignettista. Se te la rischi trattando di temi caldi e vicini al pubblico a cui ti rivolgi è come camminare su un filo: da una parte c’è una grandissima stronzata, dall’altra c’è il colpo di genio, e l’equilibrio è molto labile. La critica c’è sempre, sia da un punto di vista tecnico che da un punto di vista politico e ideologico se vogliamo; però lo sbagliare vignetta è una cosa che mi capita raramente e questo dipende molto dalla sensibilità dell’autore e dal rapporto con il pubblico, che sai cosa cerca e cosa lo potrebbe urtare.

E Charlie Hebdo allora?
Eh… Charlie Hebdo. Fortunatamente alcune cose di Charlie le avevo criticate prima che succedesse la tragedia e questo da una parte mi ha un po’ salvato, poiché il criticare dopo sarebbe stato come effettuare una forma di sciacallaggio. Ma ci sono alcune premesse da fare: ognuno può scrivere e dire ciò che vuole liberamente, non va chiuso niente, io sono per la libertà di  di stampa e di espressione; però in Francia c’è un’altra tradizione satirica e hanno anche un concetto di libertà stessa, diverso da chiunque altro. Odio quell’atteggiamento becero che c’è stato su Charlie Hebdo dopo la pubblicazione delle copertine sul terremoto di Amatrice. Nel senso io ho capito benissimo qual era il loro senso e la denuncia che stavano muovendo, reagire con frasi “antifrancesi” riesumando vecchie asce di guerra mi sembra sciocco.

Sicuramente è interessante vedere il voltagabbanismo dell’opinione pubblica. La reazione di solidarietà dopo gli attentati del 2015, con le orde dei “#JesuisCharlie”, e poi si arriva all’estate del 2016 ed è tutto dimenticato. Un’inversione notevole non trova? Questo non fa altro che confermare quanto aveva già precedentemente detto, il criterio della distanza: finché l’oggetto della satira è lontano va tutto bene, poi quando ad essere colpito è il mio vicino di casa, le cose cambiano un pochino. Io vedo ipocrisia.
Esattamente! Che poi lì la critica non era sui terremotati, ma su chi aveva costruito. Io sono spesso d’accordo con l’obbiettivo di quelle vignette, ma dissento dalla forma usata da Hebdo, io ho un’altra tecnica. Prima di fare una vignetta secondo me si dovrebbe domandare: è satira? Chi sto colpendo? Qual è il mio obbiettivo? Non si può parlare del buongusto dato che è la cosa più opinabile del mondo. La satira è una cosa, lo sberleffo, la presa in giro, il razzismo è un’altra. Mi ricordo l’episodio di quelle vignette danesi (comparse sul quotidiano “Jyllands-Posten” nel 2005 ndr.) che suscitarono tanto scalpore agli inizi degli anni 2000 e che furono riprese anche in maniera becera da Calderoli suscitando un tumulto politico ed istituzionale non indifferente. Tutti hanno difeso quelle vignette, io no e anche Vauro devo dire, per me quelle erano delle prese per in giro senza senso. Mi hanno ricordato i manifesti nazisti delle leggi razziali, le caricature stereotipate sugli ebrei. Qual era l’obbiettivo? Lo scopo della satira è quello di colpire il potere, qualsiasi tipo di potere, religioso, politico o altro. Lì cosa vai a fare? Vai a colpire i disperati, popolazioni vessate dalle bombe occidentali giorno e notte, che vedono nell’islam la loro unica ragione di vita e speranza. Bisogna sempre chiarire prima di scrivere, di disegnare, qual è il tuo obbiettivo.

Ringrazio Biani  per la disponibilità e la sincerità che mi ha mostrato. Ognuno ha le proprie idee, certo è che il politically correct costituisce uno dei terreni di scontro degli ultimi anni. Il sottile confine che esiste tra lo sciacallaggio e la notizia, tra la denuncia e la mancanza di rispetto, restano questioni aperte. Forse come i vignettisti, prima di agire, dovremmo domandarci: è veramente giusto e utile ciò che sto facendo?

Lorenzo Sagnimeni

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