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Il Castello di Donnafugata: un saccheggio dimenticato

Non si può più credere ai fantasmi.

I furti al castello in un territorio che si crede libero dalle infiltrazioni criminali.

 

Un problema di coscienza

«Infiltrazione mafiosa, a Ragusa, non credo che ce ne sia», questo dichiarava Antonio Tringali (allora presidente del consiglio comunale di Ragusa) durante l’intervista doppia di Generazione Zero ai candidati a sindaco. Ma a questa favola bella e popolare non siamo più tenuti a credere. Non solo la Provincia, ma la stessa città di Ragusa è stata interessata da operazioni di polizia contro organizzazioni mafiose. Sappiamo, inoltre, che la Stidda e Cosa Nostra convivono in questo territorio da decenni.

Può sembrare anacronistico riscovare vecchie storie, alcune delle quali sono avvenute più di quarant’anni fa, ma è invece utile per tentare di offrire un quadro d’insieme, che permetta di togliere quella patina di incanto che purtroppo rende Ragusa e i suoi abitanti ciechi ad una realtà a cui non possiamo sottrarci semplicemente ignorandola.

Il Castello al centro di un traffico di reperti?

Il Castello di Donnafugata è noto al grande pubblico come location cinematografica ed è, quindi, uno dei fiori all’occhiello del nostro patrimonio culturale. Fu a lungo la residenza estiva dell’aristocrazia iblea e conserva stili architettonici differenti sovrapposti con originalità. Ma tra la storia decadente e leggendaria dei nobiluomini che lo hanno abitato e l’acquisto da parte del Comune di Ragusa nel 1982 ha attraversato un lungo periodo di abbandono. Venne riaperto al pubblico solo nel 2002. Da allora è stato al centro di alcune polemiche: su tutte quelle per la gestione degli orari e dei giorni d’apertura e per quella degli appalti legati al Castello.

Quella del Castello è, dunque, una storia lunga e sofferta, che, proprio negli anni in cui non fu fruibile, è passata attraverso aste giudiziarie, incuria pubblica e furti sospetti. Non si ha ancora la certezza dei legami tra quello più eclatante, avvenuto nel 1987, e il traffico di beni archeologici che veniva registrato nella nostra provincia un decennio prima da Giovanni Spampinato.

Spampinato era riuscito a ricostruire la mappa di questi traffici illeciti, partendo dall’omicidio del costruttore edile Tumino e riuscendo a rintracciare i legami di quest’ultimo con Campria e con noti neofascisti. I rapporti tra la criminalità organizzata e personaggi di estrema destra sono rimasti indecifrabili sotto molto punti di vista, così come l’omicidio Tumino ad opera di Campria rimase indimostrabile. Di sicuro, Spampinato aveva trovato l’ago nel pagliaio, ma la sua scoperta lo portò in un sottobosco di inganni e intrecci, impensabile fino a quel momento a Ragusa, da cui non riuscì a uscire vivo – la ricostruzione dettagliata del caso Tumino-Spampinato, già affrontata,  certifica i troppi spazi d’ombra che sono rimasti -.

In tale cornice si possono meglio inquadrare la vicenda dell’asta giudiziaria del 1978, a cui tentò di partecipare un gruppo finanziario per farne un’attività alberghiera. In quel caso si sollevò la protesta dei deputati comunisti all’ARS Chessari e Cagnes, perché il Castello venisse acquistato da un ente pubblico. Dalle colonne dell’Unità del periodo, si poteva dedurre il timore che il bene venisse trasformato in un centro turistico attraverso un’operazione legata ad un potente uomo politico democristiano. Eppure, l’acquisto da parte del Comune era stato già deliberato due anni prima.

Il saccheggio di un bene pubblico

Nel 1982, dopo anni di torpore inspiegabile, l’amministrazione comunale finalmente procedette con l’acquisizione del castello e dell’annesso giardino servendosi della legge regionale 80/77.

Ciò che ne segue è una storia di incurie e disaffezioni, di incapacità di gestire un bene architettonico e culturale, fino al restauro degli anni ’90 completato nel 2001, a cui purtroppo è seguito un uso non strutturale e limitato ad eventi straordinari, salvo pochi periodi di valorizzazione programmata, avviata e poi disattesa.

Nella notte del 21 aprile 1987 al castello di Donnafugata, una banda di scassinatori ben organizzata riesce a penetrare e a trafugare mobili e suppellettili storici dall’appartamento del vescovo e il dipinto su olio del barone Arezzo di Donnafugata, il tutto senza incontrare il minimo disturbo: è ovvio che per trasportare mobilia siano necessari diversi viaggi, e se non si vuole credere alla storie di fantasmi, è evidente l’incuria con cui l’amministrazione pubblica si occupò di Donnafugata, sprovvista anche di sistemi di sicurezza minimamente efficienti. Un furto senza dubbio mirato: gli oggetti trafugati erano stati previamente scelti, è quindi ovvia la presenza alle spalle del gruppo di un antiquario, un esperto in materia, capace di indicare ai malviventi cosa rubare per smerciarlo al mercato nero. Tutti questi sospetti, non fanno sicuramente una prova, ma sembra davvero difficile non trovarvi delle connessioni. Se è impossibile collegare indiscutibilmente i fatti riportati, è innegabile la malevola ingenuità del non vedere la trama oscura che tracciano.

Salvatore  Schininà

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