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Razan, la piccola infermiera di Gaza

Razan Al- Najjar indossa un hijab rosa con dei fiori grandi disegnati, ha la pelle olivastra e la voce sicura di sé quando dice davanti alle telecamere del New York Times che fare il medico non è soltanto un lavoro da uomini, ma anche da donne, “altrimenti alle donne ferite chi ci pensa?”. “Certamente gli uomini possono farlo, ma anche noi svolgiamo un ruolo importante” continua Razan mentre cura gli occhi di un ferito per via dei lacrimogeni. Parla del suo compito: salvare le vite, evacuare i feriti e mandare un messaggio al mondo intero. “Noi senza armi possiamo raggiungere quello che vogliamo”.

Aveva 21 anni mentre pronunciava queste parole, uno sguardo tenace e una voglia di aiutare il prossimo che si può trovare facilmente negli occhi di chi subisce anni di occupazione e repressione. Il primo giugno, Razan è stata uccisa da un proiettile, uno dei tanti sparati dai cecchini israeliani nelle ultime settimane. Gli hanno sparato mentre faceva il suo lavoro, mentre soccorreva un ferito al confine di Gaza. L’ultima foto, scattata prima della sua uccisione, la ritraeva con le braccia alzate e con il camice bianco indosso. Difficile confondersi e scambiarla per un membro di Hamas.
Quando le chiedevano perché si trovava sotto quell’inferno lei rispondeva: “Noi volontari stiamo qui ogni giorno. Lo facciamo per il nostro Paese; è un lavoro umanitario. Non lo facciamo per i soldi, lo facciamo per Dio. Non veniamo né pagati e né assunti da nessuno.”
“Anche tra mille difficoltà continuerò a fare il mio lavoro, io non mi arrendo” dice sorridente.

Razan, come tante altre donne palestinesi, rivendicava la sua emancipazione con orgoglio e sottolineava il ruolo cruciale svolto dalle donne nella loro resistenza quotidiana. Sperava “di poter diventare un modello” da seguire e un’ispirazione per chi vuole avvicinarsi a questo lavoro. E in un’altra intervista affermava: “Nella nostra società spesso le donne vengono giudicate, ma la società deve accettarci. Se non ci accetteranno per scelta, saranno obbligate a farlo, perché noi abbiamo più forza di ogni altro uomo. Ti sfido a trovare in qualunque altra persona, la forza che ho mostrato durante i primi soccorsi nei primi giorni di protesta.” Giorni in cui il confine con Israele, sulla Striscia di Gaza, era diventato un fiume di sangue, in cui sono morte decine di palestinesi e ne sono rimasti feriti a migliaia.

Credit Photo: Walid Mahmoud

Ai funerali di Razan erano presenti centinaia di ragazzi e ragazze, di uomini e donne per dare il loro ultimo saluto e supporto alla sua famiglia. “Il mondo intero ha visto cosa è successo a mia figlia. Dove sono i diritti umani? Come poteva essere considerata una minaccia mia figlia? Questa era la sua arma, questa era l’arma di mia figlia!” dice Sabreen al Najjar, madre di Razan, mentre mostra alle telecamere un paio di rotoli di garze e ovatta. “Su quali basi i soldati l’hanno uccisa?” dice tra le lacrime, e chiede all’ONU di fare chiarezza sull’accaduto. Intanto, le autorità israeliane hanno affermato che si è trattato di un incidente e che l’intenzione del cecchino che ha sparato non era quella di ucciderla.

Razan è diventata la 119esima vittima per mano dell’esercito Israeliano dal 30 marzo, giorno in cui è iniziata la marcia del ritorno. È il secondo paramedico ucciso sin dall’inizio delle proteste. Ma questa volta non facciamola diventare l’ennesimo numero, diamole la dignità e il rispetto che si merita, così come quello che si meritano le altre vittime. E La maniera più banale per farlo è parlarne.

Youssef Hassan Holgado

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