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Le donne Tamimi come simbolo della resistenza palestinese

Nell’ultima settimana sono stati diffusi sul web foto e video di un’adolescente dai ricci biondi e gli occhi chiari, con tratti somatici che difficilmente vengono associati al mondo arabo, in particolare quello palestinese. Le didascalie che descrivono le sue foto sono accompagnate dall’hashtag #FreeTamimi #FreePalestine. Questo perché la ragazza dai “riccioli d’oro” è diventata l’icona della resistenza palestinese e delle proteste che hanno fatto seguito alle dichiarazioni di Trump di due settimane fa. Dopo la decisione di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo conseguentemente quest’ultima come capitale d’Israele, sono stati indotti più “giorni della rabbia” in segno di protesta da parte della comunità palestinese. Alle dimostrazioni sono seguite le repressioni del padrone di casa, Israele, con lacrimogeni e cariche, contrastate dalle sassaiole arabe. Il bilancio è di 4 morti palestinesi.

Ahed Tamimi, i ricci della resistenza

Protagoniste di queste manifestazioni sono anche le donne che da anni al pari degli uomini difendono a testa alta i loro diritti e i loro figli, sdoganando l’immagine stereotipata della donna araba che viene vista emarginata dalla società e sottomessa dall’uomo. Ahed Tamimi è una di loro, una ragazza senza hijab, vestita come le adolescenti europee e intrisa di un coraggio singolare.
Ahed è stata arrestata più di dieci giorni fa quando un video, divenuto virale su internet, la ritrae che tira uno schiaffo a un militare israeliano, dopo aver appreso la tragica notizia che un altro soldato ha sparato a suo cugino Muhammad, ora in coma. Immediatamente si è creata una rete di solidarietà a favore di Ahed, soprattutto dopo le dichiarazioni del Ministro dell’istruzione israeliano secondo cui la sedicenne palestinese dovrebbe spendere il resto della sua vita in prigione per il gesto compiuto.
Sin da bambina Ahed è scesa nelle strade del suo villaggio, Nabi Saleh, per difendere i suoi fratelli e i suoi diritti dall’usurpazione israeliana. Da anni combatte questa sua battaglia al fianco della sua famiglia, diffondendo messaggi di speranza e di lotta per non arrendersi alle ingiustizie subite. Numerosi sono i video in cui la ritraggono che urla parole di sconforto a soldati armati dalla testa ai piedi, quando lei era solo una bambina di 10 anni in leggins e maglietta. Come tutti gli adolescenti anche quelli palestinesi hanno i loro sogni e in una recente intervista Ahed dichiara di voler diventare giocatrice di calcio, ma per via dell’occupazione è un sogno che non può inseguire, così come ammette che non può fare “progetti futuri a lungo termine” dato che la condizione in cui si trova la costringe a vivere giorno dopo giorno.
Negli ultimi anni, Ahed e la sua famiglia hanno deciso di iniziare a fotografare e a documentare le violenze subite durante le proteste. Video e foto hanno iniziato a girare su internet e specialmente sui social network sollevando commenti di indignazione e di denuncia. Così, la macchina fotografica e gli smartphone diventano la loro arma più importante e quella più temuta da parte dell’esercito israeliano. Ahed in un certo senso diventa l’icona della loro resistenza, una resistenza tutta femminile che si tramanda di generazione in generazione, da madre in figlia.

La comunità di Nabi Saleh

Nabi Saleh è un piccolo villaggio palestinese, situato nella West Bank a circa 20 km da Ramallah. Come tutti gli altri villaggi arabi, Nabi Saleh è spoglio, sorge sulle colline di una terra arida e secca, nei dintorni sono stati costruiti palazzi di insediamenti israeliani e grigie caserme militari. Per entrare e uscire dal villaggio adulti e bambini sono costretti ad attraversare un check-point situato all’inizio della via principale del paese. Nabi Saleh è composto da una comunità di 620 residenti che portano tutti lo stesso cognome, Tamimi.
I Tamimi hanno iniziato la loro resistenza popolare nel 2009, da quando, ogni venerdì, dopo la preghiera, si radunano nelle strade con bandiere, megafoni e striscioni per esprimere il loro dissenso al regime israeliano. La particolarità è che alle proteste e manifestazioni indette dalla comunità partecipano anche i bambini più piccoli. Sono tutti consapevoli del destino che gli spetta e i genitori, in particolare le madri palestinesi, cercano di crescere i figli in un clima di resistenza e di renderli consapevoli dei loro diritti e doveri, in modo tale da potersi difendere in caso di arresto. Questo perché la maggior parte delle sentenze di condanna emanate dai tribunali israeliani a danni di minori palestinesi avvengono in assenza di avvocati, famigliari o testimoni.
Tutti i ragazzi e adolescenti di Nabi Saleh condividono la stessa infanzia, un’infanzia di proteste e di repressione. Molti di loro sono stati arrestati più volte per aver opposto resistenza alla violenza dell’esercito israeliano durante le perquisizioni notturne, al lancio di lacrimogeni, ai tagli all’acqua potabile o semplicemente per giocare a calcio in strada. Sì, perché anche tirare due calci al pallone può diventare difficile e complicato sotto un regime di occupazione.
In un interessante reportage della video giornalista HyoJin Park, condotto per l’emittente televisiva e giornalistica Al Jazeera English, vengono intervistate le madri del villaggio di Nabi Saleh.
Manal Tamimi, una di loro, spiega che “essere una madre palestinese significa essere una superwoman, un’eroina, una persona indistruttibile”. “Ma io non sono una superwoman – dice – sono un essere umano e come tutti ho i miei momenti di debolezza. Ma questa è la nostra vita, una vita rischiosa. Cerco di mantenere il controllo, di trovare la bellezza nel mezzo alla distruzione, di cercare la speranza nel mezzo della depressione, di cercare la felicità nel mezzo del caos in cui viviamo. È quello che insegno ai miei figli”.
Inevitabilmente i ruoli di madre e di attivista coincidono e si intrecciano tra di loro, essere una madre in quelle terre significa anche difendere i figli dalle forze militari israeliane, significa crescerli sotto un regime di occupazione che impone contiue restrizioni. E proprio per difendere i propri figli e la propria terra, Manal è stata arrestata più di una volta, rimanendo anche ferita ad una gamba.
“Non voglio che i miei figli abbiano paura. Avere paura quando sei sotto occupazione, significa che non puoi più fare niente e perderai la tua vita. Invece di spiegare ai miei figli i loro diritti in caso di arresto, di parlare di proiettili e gas lacrimogeni, vorrei parlargli dei loro hobby, di cosa gli piacerebbe fare e del loro futuro” dice Manal con la voce commossa, e quando gli chiedono se ha paura di morire risponde: “Se dovrò morire, voglio che tutto il mondo sappia per quale motivo lottiamo e resistiamo. Ma allo stesso tempo non voglio morire, perché la mia resistenza si tratta di vita, di speranza, di sogni e di un futuro migliore”.

Lì, in quel minuscolo fazzoletto di terra le ragazze come Ahed diventano adulti prima del tempo, l’adolescenza non esiste, non si ha tempo di godersi i pregi di quell’età spensierata.
Se cresci e ti rimbocchi le maniche hai speranza di sopravvivere, altrimenti perisci piano piano per via dell’ennesima guerra all’odio.
Ma Ahed che negli ultimi anni ha perso uno zio e un cugino e che ha visto l’arresto di molti suoi coetanei e parenti non si arrende ed esorta: “Dovremmo estendere la nostra lotta a tutti, in modo tale da porre fine alle ingiustizie nel mondo. Ognuno di noi è vittima di un’occupazione. Noi come palestinesi non permetteremo a nessuno di soffrire da solo. Incoraggio sempre tutti coloro che soffrono ogni sorta di repressione di non mollare e far sì che la loro voce venga ascoltata nel mondo.”
Queste parole di estrema consapevolezza e maturità provengono da una ragazza di sedici anni che invece di vivere, lotta per sopravvivere, così come lotta un popolo intero da settant’anni a questa parte.

Youssef Hassan Holgado

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