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Alle origini del fenomeno mafioso

Catania, 17 marzo 2017- Nell’ambito del laboratorio “Donne e mafie” destinato agli studenti del DISUM organizzato in collaborazione con “Fondazione Giuseppe Fava”, CGIL e UDI si è svolta la presentazione del saggio di Isaia SalesStoria dell’Italia mafiosa”.

Sales insegna “Storia delle mafie” all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è stato sottosegretario al Ministero del Tesoro del primo governo Prodi. In passato ha scritto diversi saggi tra cui “Leghisti e sudisti” (1992), “Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli” (2006), “I preti e i mafiosi” (2010). 

storia dell'Italia mafiosaNel suo saggio, Isaia Sales vuole divincolarsi da tutte le interpretazioni storiche che hanno affrontato il fenomeno con etichette genetico-antropologiche o culturaliste. In passato si diceva che la mafia era una “cosa” palermitana, perché la Sicilia occidentale è stata colonizzata dai cartaginesi, quella orientale dai greci: poi la mafia si è “scoperta” pure a Catania. Oppure che la mafia è una “cosa” siciliana, o meridionale, perché loro sono così, gente sanguigna, selvaggia: poi si sono scoperti i traffici settentrionali ed internazionali. Nessun familismo amorale può esaurire la spiegazione di un fenomeno complesso che va visto come parte strutturale e integrante della storia d’Italia. La storiografia ufficiale attuale considera superficialmente un fattore di spiegazione fondamentale relegandolo in secondo piano, come zavorra dell’intoccabile questione meridionale: «Le mafie ci appartengono come italiani, prima che come meridionali», dice Sales.

Le mafie nascono nelle carceri e negli eserciti a ridosso dell’Unità d’Italia e i loro statuti e comportamenti copiano quelli delle classi dirigenti, ovvero quelli della Massoneria e della Carboneria. Non dimentichiamo che intendere seriamente la mafia significa considerarne lo status di società segreta che la lega indissolubilmente all’omertà (ndr). La Camorra, spiega Sales, ha il primato dell’ufficialità: il suo statuto risale agli anni ‘20 dell’800 e con l’arrivo di Garibaldi a Napoli, venne costituita una guardia cittadina composta da camorristi che accompagnò l’eroe dei due mondi fino a Teano. In Sicilia la mafia venne utilizzata per contrastare il movimento operaio Siciliano (vedi Portella della Ginestra) e prolungare il latifondo oltre i suoi confini storici: i contadini che chiedevano la terra vengono surclassati dai mafiosi che hanno espropriato i latifondisti  diventando dei veri e propri feudatari. Ritorna la mutualità con le classi dirigenti: cos’altro sono stati i feudatari siciliani se non dei potenti che aspiravano alla ricchezza, al potere istituzionale e, cosa ancor più significativa, all’amministrazione della giustizia che si poteva ottenere in delega nei propri possedimenti pagando una tassa al Rey? Nonostante questo riferimento non bisogna fare l’errore di retrodatarne la genesi: si tratta di un parto cesareo ottocentesco.

Anche la mafia, infatti, ha una propria tassa – il pizzo – la cui esazione avviene nei territori di competenza e rappresenta, sotto forma di  consenso o di estorsione, la legittimazione dell’amministrazione della giustizia che spesso esercita con un’efficacia che lo stato ufficiale non riesce a garantire. La mafia, come violenza privata, aspira alla gestione della violenza legittima che i teorici dello stato moderno hanno descritto come monopolio del potere statuale. Le “imposte” versate alla mafia non la arricchiscono, in quanto i suoi proventi vengono principalmente dal traffico internazionale della droga e dagli investimenti finanziari, tuttavia sono così importanti perché diventano un simbolo del riconoscimento del loro potere che è un potere di tipo relazionale. La forza della mafia non viene dalla mera violenza ma dal fatto che si relaziona con altri poteri: è una violenza privata subalterna che, in un certo momento storico, ha incontrato altri interessi privati e istituzionali ed è diventata un soggetto politico con un peso contrattuale. Sales sottolinea più volte come la mafia sia una «criminalità d’ordine» che, ai suoi albori, è stata fondamentale per la storia dell’unità nazionale e, successivamente, ha avuto un ruolo nella lotta al comunismo nel secondo dopoguerra.

Occorre, quindi, rivedere la storiografia ufficiale e affrontare finalmente la questione meridionale per venire a capo di un fenomeno così complesso che, se continua ad essere ritenuto inspiegabile o ad essere affidato a spiegazioni semplicistiche rischia di legittimare il fenomeno mafioso come un fatto comunemente accettato e di trasformare coloro che lo subiscono in carnefici di se stessi. Sembra banale sottolinearlo ma può essere utile per non essere fraintesi: esiste ancora qualcuno che non vuole la mafia.

 

di Massimo Occhipinti

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