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1914 – 2014: cent’anni in un giorno

“Il 28 giugno del 1992, senza preannuncio, il presidente francese Mitterrand fece un’improvvisa e inattesa comparsa a Sarajevo, centro di una guerra balcanica che doveva provocare nel resto di quell’anno la morte di 150 mila uomini. Il suo scopo era di ricordare all’opinione pubblica mondiale la gravità della crisi bosniaca. Infatti la presenza di un anziano e prestigioso statista in condizioni di salute assai precarie, che sfidava il fuoco delle artiglierie e delle armi leggere, fu un evento degno di nota e fu oggetto di ammirazione. Tuttavia, un aspetto della visita di Mitterrand passò quasi sotto silenzio, benché fosse uno dei più importanti: la data.”

Eric J. Hobsbawm – Il secolo breve

Il tempo si è fermato

28 giugno 1914. Il nazionalista serbo-bosniaco Gavrilo Princip, a Sarajevo, in un attentato uccide l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e sua moglie, la duchessa Sofia. Quei pochi spari diedero inizio a un conflitto sanguinoso che ammorbò l’Europa e il mondo da quel giorno in seguito. Era finita un’epoca: il mondo di ieri lasciava spazio al mondo di oggi, come lo conosciamo, vale a dire incerto, crudele e figlio del fanatismo. Non che il mondo di ieri fosse perfetto, non stiamo dicendo assolutamente questo: era solo diverso. La cosiddetta Grande Guerra avrebbe cambiato le regole del gioco da quel fatidico giorno in poi. Per lo storico, già sopra citato, Eric J. Hobsbawm, la dicotomia fra secolo precedente e secolo breve è netta e decisa: “il grande edificio della civiltà ottocentesca crollò tra le fiamme della guerra mondiale e i suoi pilastri rovinarono al suolo. Senza la guerra non si capisce il Secolo breve, un secolo segnato dalle vicende belliche, nel quale la vita e il pensiero sono stati scanditi dalla guerra mondiale, anche quando i cannoni tacevano e le bombe non esplodevano.” Era come se quella (in realtà illusoria) pace stabilitasi fra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento si fosse sgretolata in un solo colpo. La verità era comunque diversa: come tutti i libri di storia ci hanno sempre ripetuto a macchinetta (e chissà se l’abbiamo mai appreso realmente) quell’attentato non era un fulmine a ciel sereno. Il nazionalismo martellante di fine Ottocento, annesso all’ondata di prepotente rigurgito di colonialismo, aveva annebbiato le menti dei grandi della Terra, che sognavano un futuro fatto di sovranità nazionale e di fulgori irredentisti. Un futuro, “magnifico”, fatto di bombe a mano, maschere anti-gas e mitragliatori, un po’ come lo avrebbero disegnato i futuristi durante e dopo il primo conflitto mondiale, si stagliava all’orizzonte come un simbolo di delirio di potenza e presunta prosperità. Di conseguenza, i cento anni successivi saranno bagnati da un’incessante pioggia di sangue.

Un breve e doloroso secolo

Sono note da requiem quelle che hanno accompagnato lo scandire del tempo da quel 28 giugno ad ora, cento anni dopo. Abbiamo conosciuto la guerra, il disordine, la carestia, un effimero e quantomeno illudente periodo di presunto benessere fino a giungere alla crisi odierna. Quanto conta il passare del tempo, lo scorrere di un anno dopo l’altro fino a raggiungere il traguardo del centesimo compleanno, nell’influire positivamente/negativamente sulla (in)sana crescita di una società moderna? Quella svolta di inizio secolo, ineluttabilmente, si riflette su di noi anche oggi. Se il Novecento è stato il secolo delle ideologie (spesso sanguinarie), dei fanatismi e delle divisioni, col nuovo secolo non siamo sicuramente messi meglio. Forse proprio quest’anniversario passato, a tratti, un po’ in sordina ne è l’emblema. Ovviamente, quando si parla di anniversari del genere, è scontato dire che attraversiamo la dimensione del simbolico. La cosa assume i contorni del grottesco quando questo simbolico viene ignorato o, peggio ancora, enfatizzato in toni francamente poco ortodossi. Se i leader europei, alle prese con la crisi, hanno un po’ snobbato l’appuntamento “storico” di Sarajevo, le divisioni etniche e religiose all’interno dell’Ex Jugoslavia si fanno ancora sentire, a vent’anni oramai dallo scoppio di quel raccapricciante episodio storico che è stato il conflitto balcanico. Nel mentre la memoria storica si tinge di retorico: cimeli storici asburgici che vengono venduti alla fiera come santini del commercio religioso. Fa un po’ sorridere, se non trasudasse un aspetto tragico, quest’ossessione della ricerca di un’epoca pre Grande Guerra, in un periodo di crisi globale spaventosa che assomiglia, almeno per certi versi, a quella voglia di guerra che attanagliava i potenti del mondo in quei sconvolgenti giorni. Tutto si tinge di inquietante se si pensa anche, in ultima analisi, a quanto (e più che mai) sia radicato il nazionalismo ovunque. L’esempio lampante è fornito da quella statua eretta il giorno dell’anniversario, a Sarajevo est, nella zona serba della capitale bosniaca, in onore del “patriota” Gavrilo Princip. Il culto della Grande Serbia assomiglia un po’ al culto nazionalista/irredentista di fine Ottocento/inizio Novecento. Questo sembrerebbe il succo di una giornata che celebra un disastro di cento anni fa. Cento anni, milioni di morti e miliardi di bombardamenti concentrati nell’arco temporale di 24 ore. Chissà, in questo stagliarsi contemporaneo di luci ed ombre, cosa vedranno i nostri discendenti fra cento anni, quando noi saremo già cenere alla cenere e polvere alla polvere? Se il nostro passato è stato oscuro, il nostro futuro, purtroppo, non lo sembra di certo meno.

 
Simone Bellitto

 

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