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Andrea Rocchelli – Epitaffio per un fotoreporter

Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.

Nadar

La morte corre sul filo del reportage

Fotografare la guerra. Raccontare il conflitto e descrivere le torture, la criminalità, la morte in diretta quotidiana durante gli scontri. Questo era quello che faceva Andrea Rocchelli, giornalista freelance e fotoreporter. Cronista instancabile dei bollettini di guerra esteri e dei paradossi di mamma Italia. Rocchelli è morto sul campo, raccontando e fotografando l’orrore, le bombe e quei mortai che alla fine lo hanno ucciso. La sua vita si è fermata a Sloviansk, in Ucraina, lo scorso sabato 24 maggio, in quello che è oramai da mesi un virulento scontro fra cittadini ucraini e cittadini filo-russi. Nel giro di una settimana la sua salma è rientrata in Italia ed è avvenuto il suo funerale, occorso il 30 maggio a Pavia. Lo sfortunato 30enne fotoreporter è stato così omaggiato per l’ultima volta. Chi era, però, Andrea Rocchelli? Il giornalista, che aveva creato il suo “nucleo operativo” di base nell’area piacentina, aveva fondato nel 2008 il collettivo composto da altri quattro colleghi con l’emblematico nome di CesuraLab. Successivamente ha raccontato parecchie zone d’ombra calde del pianeta, fra le quali la Libia e la Tunisia durante le cosiddette Primavere Arabe; il Kirghizistan; l’Inguscezia e la Cecenia. Inferni dimenticati dall’umanità, il più delle volte. Fino a giungere nell’Ucraina straziata dalle sanguinose seccessioni della Crimea e (probabilmente) della sedicente Nuova Russia.

Andrea e gli altri martiri della cronaca

Andrea è solo l’ultimo di una lunga serie di vittime del giornalismo, sia nella versione da taccuino che in quella da macchina fotografica e videocamera. Si pensi al famoso capo del fotografo ungherese Robert Capa, che ha fotografato la guerra civile spagnola, lo sbarco in Normandia e per finire, è morto su una mina durante la guerra in Indocina nel 1954. La storia recente, gremita di corpi senza vita lasciati sull’asfalto dalle armi da guerra, ci costringe a restringere il campo alle vittime italiane. Se nel 1987 in Mozambico tocca a Almerigo Grilz, nel 1994, in Bosnia, sarà la volta del giornalista Marco Luchetta e degli operatori Alessandro Ota e Dario d’Angelo. Nello stesso anno troveranno la morte in Somalia, fra depistaggi e insabbiamenti, anche Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, penna e telecamera. Per giungere all’esecuzione in Iraq del giornalista freelance Enzo Baldoni. Tante croci su cui è scritto un nome legato al giornalismo, serio e sul campo. Lontano dai salotti borghesi e vicino all’orrore. In quell’orrore ci è finito anche Andrea, incastrato fra l’incudine ed il martello di indipendentisti e Euromajdan contro filo-russi fedeli allo zar Putin. Un nuovo campo di battaglia reale dove si sta arenando il buon senso e la pacificazione e che diventa sempre più, per i giornalisti come Rocchelli, un campo sempre più pericoloso da raccontare. Un cruento resoconto che, però, va fatto. Il sacrificio del fotoreporter trentenne non deve essere vano: bisogna descrivere, nel miglior modo possibile, il tramonto della ragione umana in fondo alle bombe ed ai mortai.

Simone Bellitto

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