“Who controls the past controls the future. Who controls the present controls the past.”
George Orwell – 1984
Accendete le telecamera!
I cortei non saranno più gli stessi, è bene che lo sappiate. Il grande occhio digitale, d’ora in poi, vi sorveglierà. Non sarà più la stessa cosa partecipare a una manifestazione poiché, si prospettano tempi duri. Probabilmente, però, la percentuale di preoccupazione dovrebbe essere ben ripartita da ambedue le parti (manifestanti e agenti di polizia), poiché la grande mano invisibile potrebbe calarsi con violenza sia sugli uni che sugli altri. La misura, infatti, che tiene banco al momento è quella che prevede 150 telecamere per altrettanti funzionari capisquasdra di polizia, appartenenti ai reparti mobili, che dovranno tenere sul petto un apparecchio a testa per “registrare” quello che accade nel momento clou della manifestazione, corteo o evento sportivo. La misura che, a quanto pare, riceve il plauso incondizionato da ampie parti dall’opinione pubblica, servirebbe da deterrente ad azioni violente dei manifestanti e ad abusi perpetrati da parte degli agenti in divisa. Il provvedimento sembrerebbe largamente giustificato, all’opinione dei più, dopo la serie di violenti scontri accaduti durante la finale di coppa Italia Fiorentina-Napoli, avvenuta allo stadio Olimpico di Roma qualche settimana fa. Una misura che dovrebbe prevenire, oltre alla violenza dei manifestanti, anche il tifo violento. La domanda che adesso è lecito mettere al centro della questione è: potrà essere utile questa semplice misura a porre fine a tutta questa serie di problematiche fin qui elencate?
Deterrente o palliativo?
La misura potrebbe, come tutto del resto, avere effetti positivi o non averne. Oltre al gran vociferare sulla violenza immane negli stadi (spesso tollerata nel massimo silenzio a livello istituzionale) si è posto poco l’attenzione su altri tipi di fenomeni. Si è data poca attenzione al fenomeno delle cariche violente delle forze dell’ordine che, talvolta, hanno purtroppo effettuato senza la giusta motivazione. Un esempio classico è quello che è accaduto a Roma durante le manifestazioni dei movimenti per la casa. Le violenze, verbali e fisiche, operate quel triste giorno a Piazza della Repubblica, sono risultate disarmanti e hanno posto l’attenzione su questioni come le proposte sui numeri identificativi per gli agenti di polizia, rigettate senza batter ciglio dal ministro Angelino Alfano. Eppure le violenze ci sono state e hanno scatenato una rete di indignazione che ha condannato, senza se e senza ma, l’accaduto. Le giustificazioni dichiarate dagli agenti coinvolti hanno rasentato, spesso e volentieri, il grottesco ed il paradossale. Sicuramente, è un tema decisamente caldo quello che sta imperversando, in maniera impietosamente critica, sull’operato delle forze dell’ordine. Va, con tutta sincerità, detto che ovviamente il lavoro sporco della violenza di strada non è solo un “merito” delle forze dell’ordine: “teste calde” di vario tipo e schieramento politico, quando non veri e propri provocatori di bassa lega, rendono bene chiaro ed esplicito quanto sia facile che la temperatura, anche in un corteo pacifico, si scaldi con poco. In tal caso l’utilizzo delle telecamere potrebbe davvero essere un buon deterrente per episodi di violenza o di abuso di qualsivoglia tipo e da qualsivoglia fronte esso provenga. Si spera solo che questo non sia l’ennesimo palliativo istituzionale. Che un numero di telecamere sparuto non diventi un surrogato di misure pratiche di buon senso tese ad evitare situazioni spiacevoli ed incresciose come quelle cui, troppo spesso, siamo obbligati ad assistere al telegiornale della sera. Nel frattempo, alle manifestazioni, siamo tutti avvertiti: il Big Brother ci sta guardando. Che lo faccia in modo giusto e logico o che esso si volti dall’altra parte per insabbiare la verità dei fatti, è tutto un altro discorso.
Simone Bellitto
Invio questo contributo antifascista. E magari perché non pensare ad un gemellaggio? ciao, GS
EL PORVENIR: UNA “PORTELLA DELLA GINESTRA” BOLIVIANA
(Gianni Sartori)
Il ruolo di “guardie bianche” (compresa la partecipazione a interrogatori e torture di sindacalisti e guerriglieri, veri o presunti, e dei loro familiari) esercitato in America Latina da esponenti della “destra radicale” italica, la stessa che talvolta si spaccia per “antimperialista”*, non sembra essersi esaurito nel secolo scorso
Si intravede una italica mano (destra, ca va sans dire) anche dietro la strage di El Porvenir, in Bolivia, nella notte tra l’11 e il 12 settembre 2008. Ufficialmente i contadini assassinati sarebbero una quindicina, ma i sindacati boliviani parlavano di più di venti. Una vera “Portella della Ginestra” boliviana.
L’ex paracadutista Marco Marino Diodato aveva seguito le tracce dei suoi “fratelli maggiori”, gli esponenti neofascisti che, soprattutto negli anni settanta, si erano rifugiati in America Latina mettendosi al servizio dei vari regimi golpisti del Cono Sud (Cile, Argentina, Paraguay, Uruguay, Brasile, Bolivia) coinvolti nell'”Operazione Condor” finanziata dalla CIA.
Tra i più noti, Stefano Delle Chiaie, ex leader di Avanguardia Nazionale che in precedenza aveva offerto i suoi servizi alla Spagna franchista collaborando alle azioni del regime contro gli indipendentisti baschi rifugiati in Iparralde (Paese basco sotto amministrazione francese) e contro la componente di sinistra del Carlismo. In particolare, venne documentata fotograficamente l’aggressione del maggio 1976 al Montejurra (Jurramendi, in euskara) in Navarra. Come ricorda lo storico basco Inaki Egana “dos centenares de mercenarios, bajo la pasividad de la Guardia Civil, dispararon contra los seguidores de Carlos Hugo de Borbòn Parma (all’epoca il maggior esponente del Consejo Federal de Direcciòn del Partito Carlista nda), provocando la muerte de Ricardo Garcia Pellejero y Aniano Jimènez Santos. Muchos de los que parteciparon en aquella agresiòn serian luego miembros significativos del BVE y del GAL (squadre della morte antibasche nda), entre ellos Stefano delle Chiaie, Mario Ricci, Augusto Cauchi, Giuseppe Calzona y Jean Pierre Cherid (e presumibilmente anche Concutelli e Cicuttini nda). El animador de esta masacre fue Juan Maria Araluce, presidente de la Deputaciòn de Gipuzkoa, muerto por ETA a finales del mismo ano”.
Dopo il 1975, venute meno con la morte di Franco le protezioni di cui godevano, alcuni di questi personaggi presero la strada del Sud America.
In Bolivia l’ex paracadutista Diodato, diventato un ricco uomo d’affari, aveva sposato una nipote del generale golpista Hugo Banzer e, secondo due giornalisti boliviani, in anni più recenti avrebbe “organizzato squadre di killer legate ai gruppi civici per l’autonomia regionale che si battono contro il governo di Evo Morales”.
Nel 2004 Diodato era stato condannato per “riciclaggio e traffico di armi e droga”, ma era facilmente evaso da una clinica di Santa Cruz dove stava “agli arresti”. Determinanti i suoi ottimi rapporti con l’aristocrazia bianca della “mezzaluna”, le ricche province boliviane della pianura (Pando, Beni, Santa Cruz, Tarija) che si vorrebbero separare da quelle andine, abitate in prevalenza da indigeni (La Paz, Cochabamba, Chuquisaca, Potosi, Oruro).
Diodato viene indicato come “uno dei consiglieri di Leopoldo Fernandez”, il governatore del dipartimento di Pando accusato di essere il mandante della strage. A questo punto l’analogia con Portella della Ginestra diventa interessante. Un movimento separatista manovrato dall’esterno (come avvenne per il “Movimento per l’Indipendenza della Sicilia” di cui il bandito Giuliano era il braccio armato), contadini contro possidenti, la presenza di fascisti ( alcuni storici hanno ipotizzato la presenza di ex-repubblichini a Portella della Ginestra). E non mancherebbe neppure la mafia, dato che le indagini avevano individuato il clan di Nitto Santapaola come rifornitore di armi e droga per il gruppo di Diodato.
Nei giorni successivi ai fatti di El Porvenir, si contavano altre vittime negli scontri tra i sostenitori di Evo Morales e i soidisant indipendentisti (in realtà discendenti dei colonizzatori che difendevano i loro privilegi, paragonabili agli unionisti filoinglesi dell’Ulster), nonostante i tentativi del governo di Morales di risolvere pacificamente il contenzioso. Il vice-presidente boliviano, Alvaro Garcia Linera, si era incontrato con Mario Cossio, prefetto del dipartimento di Tarija ed esponente dell’opposizione. In questa circostanza la polizia aveva disperso i sostenitori del governo: un fatto quantomeno inusuale.
Contemporaneamente un comunicato delle forze armate minacciava di non voler “più tollerare l’azione di gruppi radicali e violenti che portano soltanto allo scontro tra Boliviani”.
Il generale Luis Trigo aveva poi preso posizione contro il presidente venezuelano Chavez che si era detto disposto a intervenire militarmente in sostegno di Morales e anche il ministro degli Esteri, David Choquehuanca, aveva ribadito che ” i problemi tra Boliviani intendiamo risolverli tra di noi”.
Soltanto qualche giorno prima del massacro sia la Bolivia che il Venezuela avevano espulso i rispettivi ambasciatori statunitensi. Coincidenza che aveva proiettato sui fatti di El Porvenir l’ombra di una ritorsione, quasi una rappresaglia.
Ancora nel febbraio 2008, parlando dello studente-spia A.Van Schaick, Morales aveva denunciato una “cospirazione Usa per dividere la Bolivia, insieme a gruppi oligarchici e mafiosi “, evocando poi il precedente del Kosovo. Anche se forse l’esempio del Katanga (con Morales nelle vesti di Lumumba) sembrerebbe più indicato.
Gianni Sartori