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Il caso Vajont – La cognizione di un’Italia che sprofonda

Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. […] Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua… Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti.”

Marco Paolini – Il racconto del Vajont

 

La morte vien di notte

Certe ferite, nella terra italiana, hanno difficoltà a rimarginarsi. Nella buia notte del belpaese le vite vanno e vengono. Spesso semplicemente vanno. Non può bastare mezzo secolo a cancellare l’orrore di una notte che ha cancellato duemila vite, e ridisegnato in maniera diabolica e spaventosa il paesaggio geografico di un’intera area. Nel 1963, in quel giorno 9 del mese di ottobre, qualcosa si sgretolò. Non fu solo la frana, fu qualcos’altro. Iniziava a sgretolarsi un intero sistema fraudolento che, infischiandosene di un dissesto idrogeologico permanente sul suolo italiano, permise una catastrofe di dimensioni immani. 260 milioni di metri cubi che polverizzarono sogni e speranze di un’intera regione. Di un intero popolo. Di un’intera nazione. Cinquant’anni fa la “sventatezza umana” metteva a nudo l’indifferenza di un’intera classe politica nei confronti della medesima gente che ne aveva permesso l’arrivo agli “allori” governativi. Il disastro per opera della SADE, e di alcuni suoi esponenti, poi condannati, metteva a nudo una tragedia annunciata, lontana dalla pia illusione di un disastro naturale dovuto a Madre Natura, bensì più vicina a una colpevolezza dovuta a errori e negligenze umane. La giornalista dell’Unità, Tina Merlin, denunciò la macchina di morte nel suo libro, Sulla pelle viva. Già allora si sapeva e si avevano sempre più conferme sulla natura umana dell’atroce delitto compiuto. Lo Stato arriva a Longarone, Casso ed Erto con circa mezzo secolo di ritardo. Enrico Letta e Giorgio Napolitano pronunciano, a distanza di decenni, un de profundis su cui già la storia aveva pronunciato il suo verdetto. La vuota retorica colpisce ancora.

L’Italia ferita

Il dissesto idrogeologico è, sul suolo italiano, un problema serio. La vicenda del Vajont, della SADE (l’acronimo che ricollega al marchese è una pura e triste coincidenza) e della gestione scellerata del suolo deve far seriamente riflettere. Non solo retoricamente, come invitano a fare le alte cariche dello Stato. Il sadismo sfrenato della noncuranza istituzionale precipita l’Italia nell’abbraccio delle catastrofi. Erto, Casso e Longarone sono diventate uguali a vecchie città del Far West abbandonate. Abbandonate dallo Stato. Abbandonate a se stesse. Le vicende che hanno portato alla tragedia sono state, soprattutto negli ultimi anni, ampiamente documentate. L’apporto della cultura alla (ri)scoperta della verità è stato notevole: basti pensare al lavoro documentario compiuto da artisti quali Marco Paolini e Gabriele Vacis. L’arte che sopperisce a uno Stato che sempre più nega la verità alle famiglie delle vittime e alle restanti anime che popolano i suoi antri. Cinquant’anni non sono bastati a porre il tutto in direzione opposta. Ogni anno, nuove catastrofi sopraggiungono a seppellire quelle passate. Basti pensare alle inondazioni che hanno colpito varie città: da quella spaventosa dell’Arno a Firenze fino alle più recenti a Sarno (SA) e Quindici (AV), oppure solo qualche anno fa a Genova. Per ricordare realtà più vicine a quella sicula, basti pensare alle oramai dimenticate tragedie dell’entroterra messinese di Giampilieri o al collasso geologico d’interi paesi, com’è accaduto, sempre nel messinese, al comune di San Fratello. Nomi in grassetto di una via crucis cui si aggiungono sempre nuove “stazioni” dell’orrore. In attesa di un flagello finale e definitivo che non verrà mai a compiersi, visto il continuo accrescersi di nuove realtà di dolore che sembrano non porre mai fine a questo inumano calvario. L’Italia trema, sprofonda e piange i suoi morti. È passato mezzo secolo dal caso Vajont. Cosa ci rimane fra le mani se non un pugno di sassolini raccolti fra le macerie di quest’autentico e fragoroso massacro?

Simone Bellitto

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