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Peppino è vivo

Chi è Peppino Impastato, in molti non lo sanno neppure oggi. E dico “chi è”, adesso, non “chi è stato”. Perché, come dice il più usurato degli slogan, “Peppino è vivo e lotta insieme a noi/Le nostre idee non moriranno mai”. E come dice un altro, altrettanto noto, “Le idee di Peppino camminano sulle nostre gambe”.
Non lo conosce il ragazzo che vive fuori dalla Storia e tutti gli adulti con il codice a barre tatuato sul cuore, con i corpi spezzati tra i corridoi dei centri commerciali, negli scomparti dei supermercati nella spesa del sabato. Non lo conoscono i ragazzi con il fegato mangiato dalla rabbia e dal desiderio degli oggetti che la televisione dice di comprare, i ragazzi che si sentono di non appartenere a nulla, fermi in una vacanza perenne, al limbo di chi non ha cominciato a vivere; non se lo ricordano i manichini dell’impegno, quella gente in vetrina. Non sanno bene neppure i difensori dei cani e i nemici degli zoo, gli amici delle foche e delle balene, perché non si occupano di questo; peggio ancora, tentennano i maratoneti delle filosofie orientali, i sapienti della politica internazionale, i sacerdoti dei massimi sistemi. Non lo conoscono gli anziani, oppure fanno finta. Non lo conoscono i vecchi professori arroganti o le signore benpensanti, che oggi si commuovono alla storia di questo povero uomo e martire del sogno, sospirando tra i denti che l’idealismo non paga, ma soprattutto, che uno non deve essere troppo esagerato come Peppino, come Giovanni, come Mauro o Pippo. Non se lo ricordano le macchine da lavoro dell’esercito impiegatizio, l’egoismo disperato dell’esercito di riserva dei disoccupati, non se lo ricordano gli studenti, anche quelli universitari, se non l’hanno conosciuto in uno di quei progetti extracurriculari che fa l’antimafia a scuola, perché a scuola insegnare l’antimafia non è ancora considerata una cosa di importanza vitale. Ma tornerà in mente a quel vecchio che si è rotto la schiena per decenni e ora mastica le parole senza dentiera, ai militanti dell’antimafia, a quelli che l’antimafia la fanno per hobby, ai rivoluzionari, ai comunisti, a quelli che si vogliono appropriare della memoria di un combattente solo e isolato dalla maggioranza grassa e silenziosa del suo tempo.

 

Peppino, nostro caro Peppino, io, come tanti altri, non ti ho potuto conoscere. Per dire la verità, la tua storia, così vicina nello spazio alla mia sicilianità, così vicina per la giovane età, mi è arrivata solo per via d’un film. Altrimenti, a saperlo chi era Peppino Impastato… Del resto, per quelli che hanno la mia età e per tanti compagni ed amici, tu, nostro caro Peppino, sei diventato il simbolo che sei, il nostro buon esempio, per via della pellicola di Tullio Giordana e la canzone dei Modena City Ramblers. Come ben saprai, da queste parti, le storie come la tua sono tante, e piace tanto al potere insabbiarle e al quieto vivere far finta di niente. Peggio ancora per le storie di persone come te, giornalista senza stipendio, che nel linguaggio della classe egemone, della nostra classe dirigente, è uno sbandato, se non un piantagrane. Per i pigri e gli indolenti, si fa prima a chiedersi chi ti pagasse, per quale complotto ti avessero chiamato, chi fossi in realtà: la voce del popolo è spesso un ripieno di ignoranza e qualunquismo, quando l’istruzione è quasi un lusso e le bugie sono l’ingrediente maggiore dell’impasto della propaganda. Peggio ancora, nostro caro Peppino, tu eri uno di quei morti senza divisa, che nella lotta alla mafia, nel pensiero dei tanti, sono come degli imbecilli che sono andati a fare qualcosa che non gli spettava: una specie di scusa per mentire a se stessi e scaricare le responsabilità su quella gente che domani le strade dei quartieri vogliono chiamare “sbirri” e per cui bastano un onorevole cordoglio e una memoria corta. In fin dei conti, solo oggi gli stessi uomini e donne in divisa incominciano a capire che non è loro dovere esclusivo lavorare per la comunità e che devono rendere conto ai cittadini di quello che fanno, se non per la giustizia lenta, per il loro decoro.
Di questi nostri simboli, di questa lunga marcia contro il potere oscuro, della nostra convinzione, contro l’ipocrisia di chi si appropria dei valori migliori per difendere i propri interessi, di tutta la nostra stessa speranza ci rimangono, però, grandi cose. Tante bestie finiscono in manette e, cosa ancora più importante, le generazioni crescono pensando che la mafia, in generale, come forma astorica, come atteggiamento, soprattutto come violenza, sia orrenda. Si è fatto quello che altrove si è fatto contro il nazismo, ma, per adesso, le nostre uniche certezze stanno forse nel sostegno della borghesia urbana di diversi centri e nei ragazzi.
Certo, per quell’antimafia con la cipria e il cerone, quella che vuole tanto apparire, quella strabordante che vuole fare la liturgia dei santi ed apostoli della sua gloria, tu, mio caro Peppino sei un testimone un po’ scomodo e sopra le righe. Perché noi lo gridiamo ancora, anche se ci prendono per pazzi, che la mafia è una montagna di merda, senza mezzi termini; ma tanti altri, si scandalizzano per la parola, per i modi eccessivi, per il temperamento, allo stesso modo di come non si scandalizzano davanti il grigiore e le infiltrazioni.
A farla breve, è democristiana quella mafia che ti ha ucciso e democristiana è l’ipocrisia che ti vuole oscurare oggi. Sono democristiani oggi tanti sbagli, tanti silenzi e tanto desiderio di mettere a tacere, come se il nostro popolo si fosse allenato per decenni a sedare il pettegolezzo in sacrestia e si volesse goffamente ripetere in questo tempo, dove le chiese si sono svuotate e i centri commerciali si sono riempiti. Viviamo la pantomima dei morti viventi: anche se la Democrazia Cristiana è morta, anche se è stato ammazzato chi ha cercato di riformarla- Piersanti Mattarella e Aldo Moro, su tutti-, anche se è morto chi ha cercato di seppellire le storie delle nostre tragedie, noi siamo ancora qua, a spiegare quanto valgano le cose per cui Peppino è stato disposto a morire, per cui Peppino, solo con i suoi amici, ha sfidato le peggiori canaglie. La lotta continua.

 

Giulio Pitroso

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