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Intervista a Mattia Colombo

Mattia Colombo è un ragazzo ventenne, che ha trovato spazio in un apposito in Solferino28, sotto l’ala del Corriere. La sua storia è quella di chi ha studiato duramente ma non trova lavoro.

Pensi che l’Italia sia ormai un paese morto dal punto di vista lavorativo e che i disoccupati debbano per forza fuggire all’estero, o c’è la possibilità, in un prossimo futuro, di rilanciare le sorti lavorative della Nazione?
Questo è il quesito che mi pongo quotidianamente, soprattutto per cercare di prendere una decisione in merito al mio futuro. Io sono del parere che l’Italia non sia affatto morta e abbia in verità molte risorse in termini di cervelli e persone capaci. Il problema è che abbiamo un establishment composto per la maggiore da individui dalla mentalità antiquata e non di rado despotica, i quali al momento di passare il testimone temo lasceranno il posto ad una derrata di successori abbondantemente viziati e distaccati dalla realtà. Mi spiego con un esempio: come Bossi ha fatto di tutto per cercare di passare il testimone al figlio Renzo

Mattia Colombo

-di certo non l’incarnazione della competenza e dell’affidabilità, come dimostrano i fatti- parimenti ho il sentore stia facendo la classe dirigente italiana, dove ai vecchi patriarchi aziendali vedo nel più dei casi avvicendarsi figli e nipoti cresciuti nella bambagia delle piccole o grandi fortune di famiglia. Quello che invece servirebbe all’Italia per rilanciarsi è che nelle posizioni che contano arrivino persone che abbiano vissuto sulla pelle un percorso di formazione da “figli di nessuno”. Probabilmente questo non succederà dall’oggi al domani, ma affinché l’Italia risalga la china è necessario che s’inneschi un circolo virtuoso improntato sulla meritocrazia e sulla relativa retribuzione in base ai meriti. Il sistema perfetto non esiste, ma di certo c’è un ago della bilancia che pende più verso l’una o l’altra parte: io posso dire d’aver visto coi miei occhi quanto in nazioni diverse dall’Italia questo penda più verso la meritocrazia e quali dinamiche positive ciò determini.
Noi italiani quindi ci troviamo di fronte all’esigenza di ribaltare un sistema che ha dominato per decadi e che ora sta presentando il suo salato conto. Il punto è che o lo facciamo, o andiamo a picco.

Qual’è stata la tua reazione di fronte alle infelici affermazioni fatte da alcuni ministri del governo tecnico e dallo stesso Monti, riguardo la piaga della disoccupazione e il disagio dei giovani?
Se parliamo delle sparate di Martone, tralasciando ogni voglia di strumentalizzazione io credo comunque che determinate figure debbano stare attente a quello che esce dalle loro bocche per il loro stesso bene politico, perché la situazione è talmente tesa che basta una scintilla a scatenare un putiferio. Al di là di Martone, io credo che frasi diffuse come “Chi ha voglia un lavoro lo trova”, “Se non lavori vuol dire che sei un fannullone” et similia siano i concetti-salvagente di coloro che non sanno più che pesci pigliare e cercano una via di fuga dall’angolo dialettico-sociale in cui sono rinchiusi.
La classe politica italiana è la prima a dover recitare un mea culpa e a dover dimostrare coi fatti di meritare la posizione che ricopre, che si parli dell’attuale governo tecnico o del resto del parlamento e dei partiti. Personalmente, nessuno godrà della mia fiducia fino a che non saranno le condizioni reali a farmi pensare diversamente.

Rimanendo sul fenomeno della disoccupazione, ci sono differenze lungo il territorio italiano da nord a sud?
Non sono più quelle dei tempi, perché il nord non è più quello dei tempi. E’ vero che al nord vi è una concentrazione industriale maggiore e quindi fisiologicamente si trovano più posti di lavoro, ma quella che era considerata la locomotiva d’Italia è oggi un teatro dello sfruttamento e del calpestamento dei diritti dei lavoratori. Ho diversi amici che vivono nel centro e nel sud e da quel che mi pare di percepire ci sono sì ancora alcune differenze, ma meno accentuate di prima e comunque su questo argomento la linea che separa l’Italia non è più il fiume Po, ma la fine della regione Lazio. Da Napoli in giù ci sono dinamiche differenti da quel che mi pare avvenga dalla capitale procedendo verso il settentrione, ma questo fa parte delle differenze intrinseche alla nostra nazione.
Mi viene da dire che nell’Italia di oggi noi figli di nessuno “siamo tutti meridionali”.

Quanto pensi incida in tutto questo il fattore crisi?
La crisi ha minato soprattutto il nord in quanto antico cuore pulsante dell’economia. la colpa è in primo luogo della malgestione politica nostrana, ma io credo fermamente che gli industriali delle mie latitudini debbano farsi un enorme esame di coscienza. Guardando ad esempio la zona da cui provengo, la Brianza celebre per l’industria dell’arredamento, non posso che notare che il più delle realtà imprenditoriali abbiano un approccio palesemente inadatto alle sfide del mercato attuale. Per decenni molte PMI -importantissime nel nostro territorio per l’occupazione che hanno storicamente offerto- hanno pensato troppo a produrre e troppo poco ad elaborare strategie d’aggiornamento in relazione all’evoluzione dei tempi. Il risultato è che oggi come oggi moltissimi abbassano serranda additando il la crisi come fosse l’unico male. utilizzando la metafora di un terremoto, io dico che un territorio sviluppato con accurate tecniche antisismiche reagisce meglio al momento del guaio rispetto ad una zona rimasta poco aggiornata in materia. In questa metafora c’è il ritratto di metà del nord Italia. Il resto si divide fra chi si è mosso in maniera lungimirante e tiene botta e invece coloro che, purtroppo, si reggono in piedi grazie solo allo sfruttamento del personale e all’evasione fiscale.

Riguardo la tua personale esperienza, hai mai avuto o speri di avere opportunità di lavoro fuori dall’Italia?
Certo. Il mio romanzo autobiografico “Brillante laureato offresi” si conclude appunto con me che parto per l’estero. Negli ultimi anni ho vissuto e lavorato in Germania, UK e Svizzera, dove attualmente ancora sono. Credo che ogni giovane italiano debba dedicare almeno 6 mesi ad un’esperienza in terra straniera una volta terminato il proprio percorso di studi. Anzi, il mio miglior consiglio è quello di puntare ad una laurea specialistica o ad un master fuori dall’Italia una volta completata la triennale. Tornassi indietro farei così anch’io. Per quanto riguarda il mio vissuto, all’estero posso dire d’aver trovato soprattutto 2 cose: retribuzioni migliori e incarichi più dinamici. Questo non significa assolutamente che oltre i confini italiani ci sia la terra promessa, ma di sicuro quella che io ho respirato è stata, pur con tutti i difetti, un’altra aria.

 

Intervista di Sebastiano Cugnata

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