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Quello che (non) ho. L’indiano Saviano che si guadagna il sole

Quello che (non) ho si è guadagnato il sole. Ad un anno e mezzo dal successo di “Vieni via con me”, il prodotto “Quello che (non) ho” si rivela di successo. Nel corso delle tre puntate trasmesse sulla rete La7, in tre sere consecutive, ha ottenuto un risultato d’ascolto vicino ai tre milioni di telespettatori di media per puntata e uno share oltre il 13%. Registra il record assoluto del canale quando si sintonizzano, intorno alle 22, quattro milioni di telespettatori. Oltre tre ore di trasmissione, con stacchi pubblicitari lunghi e redditizi. Sottofondo originale l’eco delle voci della dirigenza di Viale Mazzini, che riporterebbe volentieri Saviano al servizio pubblico. Forse sin dall’autunno, considerata l’estensione di “Che tempo che fa” al lunedì. Sicuramente un tentativo di rimediare al grossolano errore (quantomeno remunerativo) dell’estate, quando allontanarono lo scrittore napoletano che firmò un contratto di due anni con La7.
Successo mediatico frutto di consapevoli scelte autoriali: è stato intrapreso un percorso di narrazione resistente alla logica di facile consumo dell’era della televisione del dominio del video. Le parole riescono a svincolarsi dalla morsa della ripetitività grossolana del medium, perché racchiudono in sé storie. In ogni storia, un’emozione, un ricordo, un sogno. Intimità esistenziale. Per essere salvate e raccontate, queste storie hanno però bisogno di essere rigidamente contestualizzate e canonizzate in forma liturgica, in rito collettivo. Saviano e i lettori celebri del cerimonioso reading assumono aurea sacrale, nella scenografia trascendentale della cattedrale delle Officine di riparazione torinesi. Fedeli che rispondono amen con il telecomando, offerte che fioccano copiose nel cestino delle offerte (della pubblicità). Al sole della prateria che scompare, sciamani indiani tramandano l’esperienza delle parole alla loro tribù.
La lunga carovana dei coloni della televisione antiestetica avanza inesorabile verso l’ovest, per occupare le terre selvagge e ha ormai relegato l’etnia degli indiani della narrazione nelle riserve. Spazi ben delimitati nella distesa dei palinsesti generalisti, sempre più esigui.
Non è la prima rete e ormai (non più) servizio pubblico, per ciò che possiamo considerare evento televisivo, cerimoniale dell’annunciazione. A cogliere i frutti è La7, imprenditoria di privati. La controprova (qualora ce ne fosse l’ulteriore bisogno) dell’impoverimento – non solo culturale, di idee, ma anche, senza alcun dubbio, economico, che in tempi di crisi così pare un reato – della Rai causato dalla lottizzazione partitica del regime berlusconiano e della seconda repubblica post – tangentista.
In sella ai loro cavalli, hanno puntato il mirino i critici: la liturgia in televisione è noiosa, drammatica. Sparano, forse non a torto, nelle logiche della conquista del west. Dimenticano, colpevolmente, il desolante vuoto della prateria intorno a loro. Da tempo ormai sui canali, vediamo rotolare la paglia dei vecchi residui di una televisione assonnata e incapace di leggere il presente nell’assenza del futuro. In un domani senza storie, appare necessario raccontare. Mazzetti, Fazio e Saviano (e i notevoli autori alle loro spalle) provano comunque a colmare un vuoto. Forse per questo, trovano necessario abbandonarsi alla celebrazione del rito. Sembrano indiani, credono e raccontano.
Mettere al centro di tutto l’elemento singolo, unico, indivisibile. Ritorno all’essenzialità. La parola. Da qui, il viaggio, nel mare del linguaggio, verso l’emozione. Portare oltre, con la voce. Svuotare la televisione dell’immagine per farsi traghettare sino ai confini della radio. Rette infinite che passano dal centro, che sia sempre, libertà o pomodoro, quaderno o ponte, tempo o pane, per perdersi nelle proprie direzioni. E l’indiano Saviano, con  la tragedia di Beslan e i laogai, con l’Eternit e il lavoro, ha raccontato le storie più disumanizzanti. Ha mostrato fette di orrore. Lentamente (forse sin troppo), con schiettezza didascalica presentato il dramma del quotidiano. Un rito in una dimensione semplice, di prato e animali e nuvole.
Eppure guadagnare il cielo non è semplice. Richiede il coraggio di abbandonare il canone, deformare il rito e diventare narrazione. Sincera e semplice, espressione rivoluzionaria diretta, pura verità. Come per raccontare la storia di indiani che subiscono il furto dell’esistenza. Quello che questa trasmissione non ha e che (forse) manca.
Andrea Gentile

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