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Dalla parte di Gheddafi- intervista al Comitato 15 Ottobre

Il 15 Ottobre si mobilita anche il Comitato- nome poco originale, ma contenuti molto diversi dagli soggetti delle grandi mobilitazioni di ottobre- “15 Ottobre”. Li abbiamo sentiti per capire quali ragioni li spingano a sostenere Gheddafi o, meglio, a opporsi alla guerra in Libia. Come si può sostenere un dittatore? Ecco le ragioni- se vogliamo- del diavolo.

Perché il vostro comitato si chiama così?
Il nostro Comitato fa riferimento alla data del 30 agosto, proprio perché pensato per ricordare alla nostra classe dirigente e a tutto il popolo italiano, l’anniversario della firma del Trattato di Amicizia siglato a Bengasi nel 2008 dal governo della Gran Jamāhīriyya Araba di Libia popolare e socialista e dal governo della nostra repubblica, all’epoca rappresentato dal premier Silvio Berlusconi. Al di là delle posizioni ideologiche e della cultura politica espresse dal centro-destra – fattori che chiaramente non ci appartengono – abbiamo sempre guardato con grande speranza all’intraprendente politica estera del nostro Paese negli ultimi tre anni. Purtroppo le vicende personali del nostro presidente del consiglio e l’ormai conclamata impreparazione strategica della nostra classe dirigente – la gaffe di La Russa a Ballarò su Lukashenko ha del patetico – hanno messo l’Italia in una posizione di assoluta debolezza internazionale, che – unita allo storico status di nazione subalterna nel quadro della Nato – ci ha costretto nuovamente a rinunciare alla nostra già relativa autonomia. Per la prossima manifestazione a supporto della Siria e del legittimo governo di Bashar al-Assad, il Comitato si è riformato ed ha assunto la denominazione di 15 Ottobre.

Chi è Omar Gheddafi?
Gheddafi è l’artefice della Rivoluzione del 1969, che defenestrò la corrotta monarchia libica ed impose il principio della sovranità nazionale del popolo libico, dando vita nei nove anni successi al cosiddetto sistema della Jamāhīriyya, che in arabo significa letteralmente Governo delle Masse, e sta ad indicare un sistema politico fondato sulle teorie divulgate nel Libro Verde, un testo importantissimo in Libia, scritto dallo stesso Gheddafi, che prova a proporre una via islamica al socialismo. Si tratta di un’idea sociale ispirata al primo califfo Omar Ibn al-Khattāb, che disse: “Da quando in qua noi possiamo rendere schiavi gli uomini se le loro madri li hanno generati in un mondo libero?“. In questo testo, il salario viene considerato – analogamente al marxismo – il primo fattore dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mentre la proprietà di beni come la casa o come i prodotti del proprio lavoro viene considerata inalienabile. Senz’altro frutto di un’elaborazione molto complessa e del tutto peculiare alla realtà libica, la rivoluzione del 1969 si pose sin da subito sul solco dell’ondata panaraba, laica e socialista, che, dopo l’esperienza di Nasser in Egitto, si diffuse in larga parte del Nord Africa e del Medio Oriente. Osservando attentamente la consistenza ideologica dei “ribelli” – a partire dalle simbologie monarchiche da questi utilizzate e dalla predominante presenza di fondamentalisti religiosi – è evidente che la caduta definitiva della Jamāhīriyya libica rappresenterebbe una grave involuzione in termini sociali e politici.

Il vostro comitato raccoglie forze trasversali. Questo vi crea dei problemi di coerenza interna?
Il nostro Comitato Promotore è composto da nove persone. Non esistono forze partitiche e politiche nel nostro Comitato. Per quanto riguarda le adesioni abbiamo deciso di concedere massima apertura a chiunque sia seriamente interessato a condividere la battaglia politica da noi proposta, ma sempre a titolo personale o, comunque, nel rispetto della primazia delle ragioni del Comitato. Siamo disposti ad accogliere chiunque, senza alcun pregiudizio, purché accetti l’idea di conformarsi a quelle che sono le nostre proposte e le nostre direttive. Siamo consapevoli che esista una discreta possibilità che alcune adesioni non siano in linea con le ragioni fondanti del Comitato: ragioni che trovano il loro più naturale terreno teorico e pratico in un progetto internazionale di resistenza nei confronti dell’imperialismo nord-atlantico. In questo senso, crediamo di aver creato, nel nostro piccolo e ristretto ambito, un fronte politico e culturale che sfugge alle attuali riconduzioni verso le posizioni ormai dominanti tanto a destra quanto a sinistra, fazioni che – pure nelle loro terminazioni “radicali” – sembrano totalmente appiattite su tematiche che, nel migliore dei casi, a malapena sono capaci di scalfire il ritrovato egemonismo neo-colonialista degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia. Di certo non ci faremo inglobare da nessuna di queste sigle, proprio perché non esiste possibilità di compromessi: siamo in guerra e la scelta è di campo. O si sta con l’imperialismo o si sta con la resistenza all’imperialismo. Tertium non datur. Oggi sono Libia e Siria ad essere nel mirino, ma se domani saranno la Corea del Nord o Cuba, non avremo esitazioni a scendere in piazza anche per la difesa di questi Paesi. In quel caso, penso che dall’elenco adesioni spariranno diverse sigle e, magari, ne compariranno delle altre che prima non c’erano. Sarà un travaso, diciamo così. Pazienza. A guidare il Comitato siamo e saremo noi, nella speranza di poter calamitare individualità libere e coscienti.

 

La vostra iniziativa s’innesta all’interno di una serie di mobilitazioni più visibili e note, in un periodo di sciopero (7 Ottobre, 15 Ottobre). Come interagite con le altre realtà in movimento?
Come ho già detto, non ci interessano gruppi che, per quanto in buona fede, non riescono a cogliere il vero nocciolo della questione italiana. I diktat di Washington e di Bruxelles, uniti ai minacciosi moniti di Moody’s e di Standard&Poors, mostrano chiaramente che l’Italia è sotto assedio, esattamente come nel 1992, quando il nostro Paese diventò la vittima sacrificale nel quadro dello SME. Allora era Tangentopoli ad infuocare il clima politico, oggi sono le inchieste relative alle presunte escort del presidente del consiglio. Sullo sfondo, la speculazione internazionale contro i cosiddetti PIGS e la già ipotizzata ennesima svendita del nostro patrimonio industriale strategico statale o parzialmente statale. La concomitanza tra il nostro quindici ottobre ed il quindici ottobre della manifestazione “anti-governo” di Roma, è puramente casuale, dal momento che noi abbiamo stabilito questa data da ormai molto tempo. Colgo l’occasione comunque, per dire, che quel giorno, mentre migliaia di persone saranno in piazza nella capitale per contestare un uomo ormai alla frutta sul piano politico, il nostro Comitato sarà in piazza per contestare l’intero insieme di quei meccanismi che rendono l’Italia succube di diktat economici, politici e militari imposti da altri governi o da organismi sovra-nazionali.

Per quali ragioni la Libia è stata oggetto di un attacco militare?
La Libia ha avuto la “colpa” di “trovarsi” nel posto sbagliato al momento sbagliato. Schiacciata nella morsa delle cosiddette rivoluzioni arabe di Egitto e Tunisia, Tripoli ha subito una destabilizzazione che, a quanto apprendiamo dalle indiscrezioni, era stata preparata con largo anticipo da agenti stranieri infiltrati in territorio libico, che hanno opportunamente armato e finanziato frange minoritarie, male addestrate e male equipaggiate. Senza l’aiuto dei massicci bombardamenti della Nato – che hanno provocato almeno 50.000 vittime, quasi tutte civili – i ribelli sarebbero stati fermati e sconfitti poco tempo dopo le prime rivolte. È per questo che proprio il movimento di insurrezione partito da Bengasi, ha chiesto esplicitamente alla Nato di intervenire. False notizie – come quella relativa alle repressioni di massa e quella relativa alle fosse comuni – sono state spacciate per vere ed utilizzate strumentalmente a livello mediatico, secondo un copione che ricorda Timisoara nel 1989 o Kuwait City nel 1991. Non facevano e non fanno gola alle principali potenze occidentali soltanto il petrolio e il gas naturale libici, ma anche l’opportunità di distruggere per sempre il sogno panafricanista di Gheddafi, legato al grande progetto del GMMR, Great Man-Made River, ossia il Grande Fiume Artificiale, un’iniziativa partita nel lontano 1983. Questa complessa rete di condotte idriche, sfruttando le vaste potenzialità dell’immenso bacino acquifero fossile stanziato nella dorsale nord-orientale dell’Africa, avrebbe potuto risolvere entro circa dieci anni gli atavici problemi dell’approvvigionamento idrico non solo in Libia, ma anche in Tunisia, in Algeria, nel Niger, nel Ciad, in Egitto e in Sudan. I suoi cantieri e le sue strutture sono state irrimediabilmente distrutte dai raid della Nato. C’è poi una sfida più generale, tra Stati Uniti e Cina, che si contendono da almeno dieci anni una primazia nei rapporti con i Paesi Africani. Il FOCAC, un organismo di cooperazione creato da Pechino e da circa 40 governi africani nel 2000, ha ormai imposto la Repubblica Popolare come uno dei partner più affidabili e privilegiati in gran parte del Continente Nero. Per tutta risposta, nel 2008, Washington ha stanziato urgenti fondi per la costituzione del comando militare AFRICOM, col malcelato scopo di fermare a qualunque costo l’avanzata cinese. Rientrano in questo quadro, le ingerenze occidentali nel Darfour e nel Sud Sudan, l’intervento criminale della Francia in Costa d’Avorio e l’ostracismo europeo ed americano nei confronti di leader come Bashir o Mugabe. Possiamo tranquillamente affermare che rientrano in questo quadro anche le rivolte e gli sconvolgimenti degli ultimi mesi, dove l’interferenza statunitense sta ridisponendo e ristabilendo nuovi legami politici attraverso i nuovi interlocutori locali. Interessante sarà capire come Washington riuscirà a convincere l’opinione pubblica nazionale che oggi, e dopo dieci anni di lotta al terrorismo internazionale, l’Islam politico dei Fratelli Musulmani in Egitto o dei salafiti siriani, può diventare – come per magia – un fido alleato dell’Occidente.

 

 

E’ plausibile che i servizi segreti britannici stessero lavorando alla capitolazione di Gheddafi e abbiano pianificato la rivolta in Libia?

È assolutamente plausibile, ed è risultato anche da alcuni dispacci. Non soltanto i servizi britannici, ma anche quelli americani e francesi potrebbero essere coinvolti. Come sappiamo, la rivolta è nata quasi soltanto nell’area della Cirenaica settentrionale, ha avuto dunque un’origine assolutamente ristretta e circoscritta, analogamente a quella siriana, partita dalla cittadina di Dara. Si tratta quasi sempre di località di dimensioni non rilevanti o comunque decentrate rispetto alla capitale, e quasi sempre prossime ai confini con altri Stati. Non è stato difficile dunque, far giungere attraverso l’Egitto “rivoluzionato” o la Giordania e l’Iraq, frange fondamentaliste ben armate che potessero destabilizzare la situazione, innescando così disordini pubblici e caos generalizzato. La propaganda e la cosiddetta quinta dimensione di guerra – ossia quella del cyber-space – hanno fatto il resto. Curioso notare che nessuno metta minimamente in dubbio l’attendibilità di questi video amatoriali nel momento in cui il Paese è ancora in mano al leader da demonizzare mediaticamente, mentre i numerosi successivi video amatoriali che documentano scene di violenza o crimini nel momento in cui il Paese è controllato da forze considerate non ostili dalla Nato o dalla Nato stessa, sono praticamente del tutto ignorati. All’inizio, quando era necessario creare un impianto accusatorio contro Gheddafi, i video amatoriali, compresi quelli più farlocchi, sono stati diffusi da quasi tutti i telegiornali nazionali senza mai dubitare, nemmeno per un istante, della loro autenticità. Mentre oggi, col Paese sotto controllo della Nato e dei ribelli, l’unica voce considerata attendibile è quella del segretario generale della Nato, Rasmussen, e persino i video amatoriali che documentano chiaramente i massicci bombardamenti nord-atlantici, l’uso di armi non convenzionali da parte delle forze di coalizione e le violenze razziali dei ribelli contro i cittadini libici di colore, vengono costantemente ignorati dai principali mezzi d’informazione, e sono stati mostrati soltanto da RussiaToday e dalla venezuelana TeleSur.

Come giudicate il rapporto tra Gheddafi e Silvio Berlusconi?
Credo di poter dire che nessuno di noi pensa che l’affidabilità di un leader politico possa essere solida ed immutabile per quaranta anni. Gheddafi ha compiuto degli errori ed è sceso a pesanti compromessi con i Paesi della Nato. Tutto questo, se sul piano commerciale ha portato degli iniziali vantaggi per la Libia, sul piano militare ha costituito l’inizio di un percorso che potremmo descrivere attraverso la figura dell’abbraccio del serpente. Quando il leader libico ha deciso di rinunciare ai progetti di armamento atomico nel 2003, ha nei fatti avviato una parabola discendente che – come sottolineato anche da un osservatore del governo della Repubblica Popolare Democratica di Corea – ha determinato il dispiegarsi di una trama di invisibile accerchiamento, nell’alveo di una morsa velata da vuoti ma determinanti attestati di falsa amicizia e apparente reciproca stima. Berlusconi, così come Bush e come quasi tutti i leader dei Paesi della Nato, si è dimostrato un personaggio assolutamente inaffidabile, senza alcun scrupolo e senza remore di alcun tipo. Il diritto internazionale, in Occidente, diventa ancor più di ieri una sorta di legge della giungla ovviamente non priva di contraddizioni. L’Italia era infatti il primo partner occidentale della Libia, e le commesse che Eni, Enel e Finmeccanica si erano garantite nel paese nord-africano fruttavano contratti miliardari e posti di lavoro in abbondanza per il nostro Paese. L’arroganza e la strafottenza con cui il ministro della difesa La Russa e il ministro degli esteri Frattini hanno stracciato il Trattato di Amicizia tra i due Stati, decidendo di partecipare attivamente alle missioni militari contro la Libia, lascia stupefatti, smarriti e disarmati. In un Paese normale, una simile doppia violazione (Art. 11 della Costituzione e specifico Trattato Internazionale) costituirebbe una validissima ragione per scendere in piazza e chiedere in blocco lo scioglimento del governo e delle camere. Purtroppo in Italia, ormai, si parla soltanto di escort o altre baggianate radical chic.

 


Come è costituita la società libica? E’ simile a quella afghana, su base tribale? Si potrebbe verificare un ripetersi di ciò che abbiamo visto in Afghanistan?
La società libica è costituita su base principalmente civile ma anche su base tribale. Tuttavia un paragone con l’Afghanistan sarebbe senz’altro improprio. Nel paese centro-asiatico ci troviamo, infatti, dinnanzi ad uno scenario completamente caratterizzato da una permanente instabilità interna. Negli ultimi due secoli, il territorio afghano è stato oggetto di continui tentativi di normalizzazione: da quello britannico a quello zarista, da quello sovietico a quello americano. Nessuno è mai riuscito ad imporre definitivamente un suo ordine politico ed amministrativo. Soltanto la collaborazione tra il governo dell’ormai scomparsa Repubblica Democratica Afghana e l’Unione Sovietica negli anni Ottanta, andò vicina al raggiungimento dell’obiettivo. Ma, purtroppo, grazie alla debolezza di Gorbacev e al sostegno statunitense, il terrorismo islamico trovò nuova linfa e poté tornare al potere subito dopo il 1992. L’unità di guerriglia dei mujaheddin afghani, motivata dal comune odio nei confronti del socialismo marxista instaurato dal governo democratico afghano, riuscì a superare le divisioni interne, che riemersero solo a seguito della caduta del regime politico del compianto Najibullah, quando si sviluppò uno scontro sanguinoso tra i seguaci di Massoud e i talebani, che nel 1996 ripresero in mano tutto il Paese sino poi a ricompattarlo sotto le insegne della teocrazia wahabita, che cinque anni dopo sarebbe stata spodestata dall’intervento atlantico, e costretta a riparare nuovamente nelle zone montuose per un’ennesima guerriglia. In questo caso, invece, le tribù libiche si sono divise sin dal primo momento, dinnanzi al tentativo di ribellione contro Gheddafi. I Warfalla hanno semplicemente confermato l’ostilità già mostrata nel 1993, che aveva indotto il Rais ad approvare delle leggi che prevedessero un maggiore coinvolgimento delle popolazioni tribali nell’ambito del potere decisionale. Senz’altro importante è stato il ruolo della tribù berbera, stanziata vicino a Tripoli. Ma va tenuto presente anche il sostegno arrivato al Colonnello Gheddafi dalle tribù degli Al-Awaqir e dei Qadhafah, oltre che da diversi Tuareg provenienti dal Fezzan. Tuttavia, al di là degli effettivi rapporti di forza in campo all’interno del Paese, la guerriglia in Libia non ha e non avrà alcuna efficacia nel lungo termine: a differenza dell’Afghanistan, caratterizzato dalle impressionanti alture del nord e del nord-est e dai tanti e tortuosi corridoi naturali della catena del Pamir, il territorio libico è al 90% desertico o semi-desertico.

La Libia è stata vittima del colonialismo italiano?
Beh, la domanda appare scontata e retorica. Ovviamente sì, e la vicenda si è tristemente ripetuta proprio nell’anno delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale. Un modo ignobile per festeggiare una sovranità che, nei fatti, esiste solo come “libertà di proiezione” di quanto ci viene imposto dal diktat di Washington, di Londra e di Bruxelles. Non siamo una colonia – come certa facile propaganda anti-americanista a volte sostiene – lasciamo questa definizione a quelle nazioni e a quei popoli veramente oppressi ed umiliati contro la propria volontà. Semplicemente siamo uno Stato a sovranità limitata, ieri aggressore in via solitaria del popolo libico, oggi complice in un rapporto di sudditanza nei confronti dell’aggressore principale.

Perché oggi si parla così poco di Libia nei telegiornali?
Perché l’opinione pubblica va distratta e possibilmente alienata. L’idea di essere in guerra non piace, e non corrisponde al neo-linguaggio post-modernista che gli apologeti della globalizzazione hanno costruito per noi. Gli italiani e gli occidentali in genere, vanno continuamente rieducati secondo il modello Fukuyama: la storia è finita con la fine della Guerra Fredda, l’unico modello politico valido rimasto in piedi vittorioso è quello liberale e capitalistico, le eventuali innovazioni potranno giungere soltanto all’interno di questo eterno scenario, che attende solo di essere messianicamente esportato nel resto del mondo “non democratico”. Questa assurda ideologia distorta e para-religiosa è ormai entrata nelle nostre case, attraverso la potente arma del linguaggio e l’immenso potere mediatico della televisione e di internet. Sanguinosi tagliagola diventano eroici ribelli, leader celebrati per anni come esemplari modelli di equilibrio politico – penso a Mubarak – diventano improvvisamente dittatori da scacciare, improbabili blogger di stanza a Londra si materializzano fantasiosamente a Damasco o a Tripoli per raccontarci, in chiave emozional- sentimentale, i retroscena di una rivolta che non c’è. In questo quadro, quasi ogni giorno ci si chiede se il mestiere dell’informazione possa sprofondare in un livello di ulteriore bassezza deontologica, dinnanzi al buio pesto di un pozzo apparentemente senza fondo. La nostra categoria è composta anche da validi elementi e da molti giovani sottopagati e sfruttati con contratti da fame. Sarebbe ora di imporre, anche con la legge, un ricambio generazionale per liberarci da un corporativismo sclerotizzante che ha generato più tifosi ed opinionisti di partito che giornalisti veri e propri.

 

Ci sono differenze tra ciò che è successo in Libia e ciò che è successo in Egitto?
Sì. L’esercito. In Egitto i militari hanno appoggiato la rivolta, sedandola non appena il loro obiettivo fosse stato raggiunto: la cacciata di Mubarak. In Libia, l’esercito regolare, al di là di alcuni tradimenti dell’ultima ora, è sempre rimasto prevalentemente fedele al Colonnello Gheddafi. Senza l’intervento della Nato, è presumibile ipotizzare che i ribelli non avrebbero conquistato nemmeno un autogrill.

 

Gheddafi rappresenta un sistema non democratico. Perché un cittadino di una repubblica democratica dovrebbe sostenerlo?

Non riesco a capire il significato che in Occidente si dà alla parola “democrazia”. Secondo i dati dell’Anmil, ogni giorno in Italia muoiono 3 persone sul lavoro e si verificano in media 2.000 incidenti. Secondo i dati del Sunia, gli sfratti emessi durante l’anno scorso nel territorio italiano sono stati 65.489, pari ad un +6,5% sul 2009 (segnando il valore più alto degli ultimi 15 anni), e di questi oltre l’85% (cioè 56.147) sono stati emessi per morosità. Secondo l’Ocse, il tasso di disoccupazione giovanile in Italia si è attestato al 27,6% nel solo luglio 2011. Stenderei poi un velo pietoso sugli stipendi dei dirigenti pubblici o degli amministratori locali e sugli sperperi dovuti a quel perverso sistema clientelare inaugurato negli anni del consociativismo. Le pensioni minime dei lavoratori sono ancora oggi nettamente sotto i 500 euro, mentre un parlamentare che abbia maturato trentacinque mesi di mandato può bellamente assicurarsi un vitalizio mensile da poco meno di 4.800 euro sotto forma di pensione. Viviamo in un Paese in cui Marchionne e la Marcegaglia si arrogano il diritto di dettare l’agenda della politica, pretendendo di imporre una tassazione sul reddito uniformata, tanto al piccolo esercente quanto al manager d’impresa, o scaricando sulla forza-lavoro le incapacità e l’opulenza di una grande industria non solo parassitaria – di cui Fiat è un lampante esempio – ma pure decotta e improduttiva per il nostro Paese. Secondo lei, questa è una democrazia? Con quali criteri ci permettiamo di giudicare un Paese diverso dal nostro, un sistema politico che – con le debite e sacrosante proporzioni geografiche e storiche – riusciva a garantire un reddito dignitoso, una casa ed un’occupazione a tutti? Noi, a differenza dei libici, possiamo davvero scegliere il “nostro” governo ogni cinque anni? O piuttosto possiamo semplicemente regalare il nostro consenso formale a dei nomi auto-impostisi, per lo più sconosciuti, che gestiranno il nostro Paese, la nostra provincia, il nostro comune o la nostra circoscrizione in base a tutto fuorché all’interesse sociale?

Intervista di Giulio Pitroso

2 Comments

  1. Monsieur en rouge Monsieur en rouge 20/10/2011

    Non capisco una cosa: perchè alla domanda “perchè il vostro comitato si chiama così” rispondono “facciamo riferimento al 30 agosto” ?

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