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Resistere ad Afragola

Si chiama “Resistere ad Afragola contro la camorra”. E’ una pagina di facebook. Di questi tempi vuol dire parecchio: è un presidio di resistenza. Qui si fa coscienza e si parla di temi fastidiosi. Abbiamo intervistato il curatore della pagina.

Afragola contro la camorra

Esistono questioni spinose, che raramente passano dallo schermo televisivo. Questo sommerso di informazioni sul mondo delle mafie viene documentato solo grazie a internet. I social network sono un luogo di discussione e di narrazione, dove si trova lo spazio per storie nascoste. Si può fare questa forma di attivismo con un profilo, con un gruppo o magari con una pagina. La vostra storia in proposito dice parecchio o mi sbaglio? Come siete nati e perché?

Sicuramente a livello nazionale non c’è  adeguata attenzione e informazione  sulle vicende di mafia e corruzione; non  per imperizia ma perché  la notizia è solo marketing, cioè si cerca più di rincorrere la moda che di raccontare e spiegare un fenomeno complesso, di conseguenza  purtroppo difficilmente le piccole storie di ingiustizia quotidiana passano in televisione . Il problema è che anche quando quelle storie passano sugli schermi televisivi ci si sofferma più sugli aspetti di basso manovalanza, sul “far west” della camorra, cioè sulle notizie che possono generare scalpore e scoop giornalistico, che invece  sul vero sistema . Chi vive in zona di mafia sa esattamente che esistono due prospettive,  quella nazionale- televisiva e quella locale . La prima regola in terra di mafia è non nominare il nome dei camorristi; a certi ambienti dà fastidio proprio quando la notizia -anche banale e già riportata da altri  media – viene raccontata sul territorio di residenza. Quelle figure criminali devono essere una sorta di tabù per chi vive lì.
Il rapporto con internet, secondo me, è duplice: da una parte dà la possibilità di poter scrivere (almeno in un primo momento) liberamente e di interagire con i lettori, ma dall’altro attraverso la rete  si è più esposti a rischi  rispetto all’editoria tradizionale, in quanto non si è giornalisti professionisti e quindi per eventuali querele o minacce si è meno tutelati. Non puoi scrivere in realtà tutto quello che sai. Allora quello che bisogna fare è esattamente trovare un compromesso tra questi due opposti: da una parte  cercare di descrivere il macrosistema  criminale, documentando con materiale già pubblicato, e dall’altra sfruttare la rete come una piattaforma dove ciascuno possa testimoniare e raccontare quello che vede .Questa era la mia idea iniziale: creare una sorta di “racconto collettivo”, fatto di numerose  prospettive dove ciascuno può scrivere quello che vede. Creare un racconto partecipativo. In questo modo si può rompere quel tabù. Spesso le persone che parlano di queste vicende scrivono a  Roma o  nella  redazione di qualche giornale; sarebbe interessante cambiare prospettiva e partire dal territorio, da chi vive qui.  Raccontare serve per far raccontare.  Sicché il pericolo per i mafiosi, infatti,  non è determinato dalla notizia in quanto tale che viene riportata (ed è conosciuta da tutti).  Ma quello che irrita è che attraverso quelle notizie vuoi rompere quella regola che vige nei territori di mafia del “non nominare i loro nomi”.  Ovvero loro non accettano: 1) la visibilità che vuoi dare a quel problema 2) il fatto che tu ti indirizzi alle persone che vivono in quel posto, alle persone che conoscono quelle storie e che possono a loro volta raccontare 3)e ovviamente, oltre al fatto di parlare di loro, dà fastidio che utilizzi determinati toni accesi . Che vuoi dare un nome a quel tumore. Non possono accettare questo. Quindi non la notizia, ma il messaggio che vuoi far passare attraverso la stessa li fa imbestialire.
Sicché riassumendo credo che la rete ti dia la possibilità di interagire con persone del territorio e  di sensibilizzarle alla legalità, di creare contatti, di sfruttare in questo modo al meglio la potenzialità dell’interazione; tuttavia  non penso che in certe zone la rete  sia il mezzo migliore per fare un giornalismo d’ inchiesta proprio perché ci si espone a rischi elevati. Quando si è osservati bisogna ridurre al massimo la notizia a quello che già è stato riportato da altre agenzie stampa. Perché anche utilizzando quest’ultime si può generare consenso e partecipazione.

Vi è capitato di ricevere delle minacce? Come vi sentite e come vi siete difesi? Che rapporto avete con le forze dell’ordine?

I camorristi sanno che è fondamentale ottenere rispetto sui territori di residenza. Questo rispetto non lo si conquista solo con la violenza ma con un vero e proprio consenso.  Vogliono cioè apparire come una sorta di benefattori :  figure  carismatiche, rispettate e temute.
Quindi: certo è naturale che se pronunci i nomi di determinate persone arrivano querele e minacce,
ma  solo come “extrema ratio”.  Si inizia con  la persuasione  del tipo “la mafia non esiste”, “sono storie inventate”, “sono i soliti giornali che scrivono favole inventate”. Oppure con vere e proprie diffamazioni che colpiscono generalmente le figure che possono generare  consenso, i simboli. Come è accaduto con Don Peppino Diana, Fava,  o con tutti gli altri “martiri della mafia”. La mafia uccide due volte: la prima fisicamente, la seconda con la diffamazione,  proprio perché quel simbolo non deve generare consenso.  Non mi meraviglio se le vittime innocenti di mafia vengono accusate di essere camorristi  dagli stessi. Per questo credo sia fondamentale anche il ricordo delle persone uccise ingiustamente dalla camorra.
Tutto questo, quindi, fa parte della strategia di rompere quel consenso. Di zittirti.  Di isolarti.
Per quanto riguarda la domanda sulle forze  dell’ordine c’è un buon rapporto e  ciascun cittadino dovrebbe ringraziarli  per l’importante azione di repressione e contrasto alla mafia che fanno sul territorio. Però sarebbe estremamente sbagliato ritenere che l’azione di sensibilizzazione alla legalità sia in  alternativa o opposizione a quella di repressione: educare alla legalità integra l’operato delle forze dell’ordine. Non c’è opposizione.  Il nostro compito è semplicemente diverso.

Conoscete Libera e Ossigeno per l’Informazione?

Sì, conosciamo l’associazione “Libera” e ringrazio gli amici, gli insegnati e gli altri operatori sociali  che hanno saputo dare consigli preziosi e indirizzarci sulle strategie migliori .
“Libera” è in realtà un contenitore, un sogno, se così si può dire. Tutto dipende da cosa ci mettiamo dentro. Ciascuno di noi ha il proprio sogno di libertà. Uno dei miei sogni è quello di avere un’informazione libera per esempio. La mafia non uccide solo economicamente, politicamente, ma soprattutto culturalmente anestetizzando le forze positive presenti sul territorio. Mi piacerebbe che Libera fosse soprattutto un movimento culturale di varie associazioni e realtà già presenti sul territorio .
Non conosco ossigeno per l’informazione, ma combattere la mafia significa anche combattere il regime di intimidazione e di omertà che vige sui nostri territori. Il silenzio serve a loro.

Quante cose succedono che non passano per gli organi di stampa più noti, per le televisioni? Che cosa sa in realtà la gente della Campania di quello che accade realmente in Campania?

Come già ho anticipato prima, non solo ci sono tantissime notizie (anche gravi) che non passano mai per gli organi di stampa ufficiali, ma anche quando passano non vengono raccontate partendo dalla prospettiva del territorio.
Quando ti accorgi che quello che puoi raccontare è diverso da quello che viene raccontato, allora scrivere è un gesto naturale e oserei dire rivoluzionario.  Non certo perché dici qualcosa di indicibile o sconosciuto, ma perché scrivendo quelle cose, che gli altri già conoscono,   dai una funzione pubblica a quell’azione, apri a quella dimensione collettiva e di partecipazione.
La parola chiave della mafia è “cosa nostra”, cioè “ sono affari nostri, fatevi i cazzi vostri ; ciascuno stia al suo posto”. Ecco scrivere significa: questo ci riguarda, questi sono affari nostri. Queste storie ci riguardano.
Per questo non solo bisogna scrivere di Gomorra ma anche da Gomorra, cioè dal territorio. Ed è proprio questo che non accettano: attraverso quella notizia vuoi concretizzare qualcosa.
Per questo avevo usato la piattaforma di internet,  proprio per offrire quella funzione collettiva e di partecipazione.
Ed è davvero triste constatare che mentre in televisione si  dà spazio a osceni spettacoli,  qui quando gambizzano persone, magari emigranti, c’è un colpevole silenzio.  Silenzio anche degli organi di stampa nazionali. Quasi come se quelle vicende  non fanno  notizia. Non dare visibilità significa abituarci a  quest’inferno . Per questo alzare la voce è un gesto doveroso per la libertà. Bisogna sempre continuare a indignarci.
Spesso la gente in Campania è rassegnata, ormai è abituata da anni a corruzione e malaffare, l’emergenza è divenuta quasi perenne: ecco, dare un valore etico alle notizie serve anche per far capire che è possibile cambiare partendo dai piccoli gesti quotidiani.
Per cambiare bisogna   spostare la prospettiva  dall’io al noi. Pertanto, per rispondere alla domanda,  la gente non sa e non vuole sapere quello che accade; ma conoscere è l’unico modo per generare un processo di vera democrazia dal basso.

 

Ma voi avete paura? Perché fate tutto questo?
 Ma certo!!! Io ho paura anche quando vado dal dentista!
A parte gli scherzi, non è questo il punto.
In televisione la lotta alla mafia viene descritta secondo una certa retorica eroica  funzionale ad un certo mercato dell’editoria e strumentalizzata anche politicamente. Allora uno che si vuole schierare contro poteri criminali deve essere un eroe epico: l’individuo,  valoroso e senza macchia, che si distacca coraggiosamente dalla massa. Un’icona televisiva   che si schiera contro  i camorristi combattendo il male assoluto, guardandolo negli occhi in  una sorta di battaglia finale. In realtà  non è così.
Questa retorica non solo è falsa- in quanto non vera- ma è talvolta dannosa alla stessa battaglia antimafia.
Il messaggio che bisogna far passare  è esattamente l’opposto: “ io non sono nessuno, cioè sono  uno dei tanti, uno che è come te, un semplice cittadino che ha paura più di te . Guardami,  se io posso parlare di loro lo puoi fare anche tu. Non lo faccio per il mio interesse personale, lo faccio per il nostro interesse.”
Se fai passare questo messaggio anche parte della società civile ti criticherà (e queste critiche  talvolta sono  anche più dolorose delle minacce): “eccolo è venuto Saviano” “ma chi ti credi di essere” “lo fai per protagonismo, per narcisismo”; “lo fai perché vuoi apparire” . Accuse ingiusti ma finalizzate a dimostrare che il tuo interesse non è uguale a quello della collettività, proprio perché dire “è un nostro compito di cittadini, e io lo posso fare” significa di fatto invitare gli altri a farlo e  condannare tutti quelli che non agiscono. Per questo bisogna abituarsi alle minacce di criminali  e all’astio di  qualche persone anche oneste, ma continuare  instancabilmente a  far passare un messaggio semplice: è un nostro compito di cittadini; se lo posso fare io puoi farlo anche tu .
Pertanto  non è che uno fa questa battaglia perché non teme incidenti:  non si fa perché non si ha paura, ma lo si fa perché si ama la vita e questa non è vita. Quando vedi che la tua vita quotidiana è inquinata da un cancro malavitoso e corrosivo che determina negativamente  ciò che mangi, il modo in cui costruisci la casa, la tua sicurezza, insomma  la tua speranza di consegnare a tuo figlio un futuro migliore, combattere quel cancro  è un gesto fatto per la propria dignità. Per la propria libertà. Perché non vogliamo vivere come le bestie. Il coraggio semmai ce l’ha chi è indifferente a tutto ciò, ce l’ha  chi si rassegna a ciò, chi lo accetta  come normale, chi considera quelle storie con distacco.
Contrastare la cultura mafiosa non è un gesto eroico  ma normale, naturale , semplice. Come quando provi il disgusto per qualcosa che è putrido e marcio fino all’osso .

Perché lo facciamo? Questa è una bella domanda, permettimi di rispondere con una sana arroganza.
Supponiamo di fare questa stessa domanda ad un mafioso, o a chi proviene da quella mentalità mafiosa. Cosa risponderebbe anche per rassicurare la propria coscienza ?
Più o meno direbbe “Loro lo fanno perché sono invidiosi;  loro  sono contro di noi perché anche loro vogliono questi soldi e questo potere etc.”
Direbbero  questo perché, se possono accettare l’idea che qualcuno si schieri contro di loro, non possono però accettare che qualcuno abbia l’arroganza di sentirsi addirittura diverso e migliore da loro.

Ed è proprio questo che bisogna invece ribadire, non solo siamo contro questo sistema, ma siamo diversi cioè migliori: quei soldi e quel potere ci fanno schifo. Sono disvalori. La nostra tavolozza di etica è migliore perché siamo per un sistema migliore.
Non solo siamo contro, ma siamo diversi e migliori.
I camorristi, soprattutto una certa manovalanza criminale, amano raffigurarsi come figure quasi “epiche”, persone “perbene”, sanguinari ma dotati di buoni valori, figure romantiche che seguono una propria legge in contrasto con quella dello stato. Amano per esempio una certa cinematografia ( Tony Montana): amano ostentare quelle ricchezze e  quel potere. Amano raffigurarsi con donne e macchine etc. La loro figura deve essere quasi leggendaria
Il nome del boss è indicibile: “Non pronunciarlo invano”.
Per demistificare quest’appeal, questa ridicola caricatura, basta semplicemente raccontare la verità: spiegare  come fanno i soldi, dove investono, mostrare che fine fanno (galera o morti ammazzati). E allora la conclusione è spontanea: Invidiosi di cosa? Di essere in galera? Questo mondo è ripugnante.
Quando dico che bisogna farlo per la propria dignità, non voglio dare un senso ideale e romantico al termine. Lo facciamo a perché vogliamo essere liberi, perché vogliamo essere cittadini perché non vogliamo vivere come bestie.

Come spieghi le tue motivazioni a un altro che non la pensa come te, che preferisce farsi i cazzi suoi e campare cent’anni?
Per rispondere a questa domanda mi piace citare un esempio che fece Calamandrei quando con lungimiranza, all’epoca, paragonava i problemi della società ad una nave che naufraga: l’atteggiamento di chi preferisce farsi i fatti suoi è simile a quella di un marinaio che quando viene   avvisato che  la barca sta affondando, risponde che non gli  interessa perché non è un suo problema . Ecco questo è il punto. “Siamo sulla stessa barca”. Solo per ignoranza puoi considerare il tuo interesse diverso da quello della collettività. Il mio consiglio è: studia, capisci. Confronta. Poniti il problema. Chiediti perché qui mancano tutti quei servizi sociali che ti garantirebbero la felicità, cioè una vita migliore. Datti una spiegazione delle cause del degrado.
Allora la scelta è  tua, ma devi essere consapevole che stai scegliendo tra libertà o schiavitù. Per la propria dignità non si può scegliere schiavitù.
Per questo è fondamentale l’informazione, perché serve per far prendere “coscienza” della propria condizione di schiavitù. Cioè della mancanza dei diritti. Di come la presenza malavitosa distrugge la collettività.
Non è un caso che il nome del processo contro i casalesi prende il nome di un ribelle, un rivoluzionario, Spartaco. Affermare il diritto  in certe zone d’Italia è un gesto rivoluzionario che richiede la sinergia  delle forze dell’ordine e dei diversi operatori sociali.
Pertanto combattere la mafia significa scegliere tra libertà o schiavitù.

Giulio Pitroso

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