Mentre l’Italia affrontava le ultime ore della cosiddetta “Fase 2”, lo scorso 17 maggio il governo di Israele usciva fuori da una crisi durata più di 500 giorni e 3 tornate elettorali: il “Likud” del premier Benjamin Netanyahu, infatti, ha trovato un accordo per la formazione di un nuovo esecutivo con il partito nazionalista “Blu e bianco”, difensore dell’identità ebraica dello Stato di Israele. Dopo aver presieduto gli ultimi quattro governi Netanyhau giurerà come primo ministro congiuntamente a un rappresentante della nuova forza di governo Benny Gantz, ex capo di stato maggiore, con il quale scatterà la rotazione il 17 novembre 2021. Ma la vera notizia è che il governo più numeroso della storia di Israele, con 34 ministri e 16 vice, ha annunciato tra i suoi impegni anche l’annessione a partire dal prossimo 1° luglio dei territori occupati nella Valle del Giordano in Palestina. Occupazione dichiarata contraria al diritto internazionale dalle risoluzioni n° 242 e 338 dell’ONU.
Un annuncio fatto sotto la copertura del cosiddetto “Accordo del Secolo” che era stato presentato da Trump all’inizio del 2020 e che prevedeva un piano unilaterale di spartizione dei territori tra Israele e Palestina. Piano già all’epoca denunciato da Abu Mazen, presidente della ANP, a causa delle violazioni dei confini del ‘67: gli unici riconosciuti dal diritto internazionale. Negli ultimi 50 anni Israele, infatti, ha condotto una politica di lenta e inesorabile colonizzazione dei territori palestinesi mediante la creazione di insediamenti esclusivamente israeliani e attraverso una vera e propria occupazione militare che è continuata anche dopo gli Accordi di Oslo del 1993. In questo annuncio si legge, dunque, l’intenzione di far valere con la forza una sovranità de facto che calpesta ogni tentativo di raggiungere pacificamente una soluzione a due stati.
La reazione di Abu Mazen è stata perentoria: “L’Organizzazione per la liberazione della Palestina e lo Stato di Palestina sono da oggi esentati da tutti gli accordi e le intese con i governi americano e israeliano e da tutti gli obblighi ivi previsti, compresi quelli della sicurezza” si legge in un comunicato dell’ANP. Il presidente palestinese ha, inoltre, invitato Israele ad assumersi le sue responsabilità in quanto forza occupante, comprese le conseguenze relative alla violazione dei diritti civili e umanitari stabiliti dalla IV Convenzione di Ginevra: “sicurezza della popolazione civile nei territori occupati e delle sue proprietà, il divieto di punizioni collettive, del furto di risorse, dell’annessione di terra e di trasferimenti di popolazione dall’occupante agli occupati, che costituiscono gravi violazioni e crimini di guerra” si legge ancora nel comunicato.
Il silenzio di Tel-Aviv alle dichiarazioni di Abu-Mazen è un evidente sintomo del fatto che Israele non riconosca all’ANP nessun peso politico, mentre non è mancata la pronta replica alle dichiarazioni dell’Iran di Khamenei da parte del nuovo esecutivo israeliano. Nel corso dell’ultimo venerdì del mese di Ramadan, Khamenei si era espresso molto duramente affermando che “il virus del sionismo sarà presto estirpato dalla regione” e definendo la lotta per la liberazione della Palestina un “dovere islamico”, una vera e propria Jihad. La replica del co-premier israeliano Gantz non si è fatta attendere e, facendo valere i propri trascorsi militari, ha affermato: “suggerisco di non metterci alla prova”. Ecco che si risveglia, così, la tensione tra Iran e USA che aveva già inaugurato il 2020 (vedi l’articolo di Vincenzo Criscione).
Se l’UE dei 27 condanna duramente le dichiarazioni iraniane e ipotizza anche delle possibili sanzioni contro Israele in caso di annessione, l’ONU dal canto suo condanna apertamente l’annuncio che chiama in causa in maniera preoccupante anche le reazioni dei paesi confinanti. Primo fra tutti la Giordania del sovrano hashemita Abd Allah II che sarà costretto a rivedere gli accordi di pace firmati nel 1994 con Israele e a ipotizzare persino la minaccia di un conflitto di massa (leggi l’articolo dello IARI per approfondire la prospettiva giordana).
Si tratta di uno scontro velenoso che rischia di impregnare di fondamentalismo la questione palestinese già significativamente gravata da dissidi religiosi: se da una parte una legge approvata dal Knesset nel 2018 definisce Israele lo stato-nazione del popolo ebraico senza tener conto dei suoi cittadini arabo-israeliani, dall’altra la Palestina è attraversata dagli eterni dissidi fra l’OLP e Hamas (braccio armato dei Fratelli Musulmani nella Striscia di Gaza). Ultimamente la narrazione pubblica attinge a piene mani dall’equazione sionismo=ebraismo e palestinesi=terroristi distorcendo gravemente la madre di tutti i rompicapi mediorentali: la causa palestinese non ha bisogno, infatti, di tali distorsioni.
Cosa potrebbero fare concretamente l’Italia e i paesi europei in questo contesto? Lo leggiamo in una lettera aperta promossa dalle Comunità palestinesi in Italia e sottoscritta da numerose associazioni che già il 12 maggio ritornavano prontamente a denunciare la sottotraccia aggressiva e colonizzatrice dell’accordo del secolo: “Chiediamo all’Italia, ai paesi europei che hanno espresso la loro contrarietà a questo piano e all’Unione Europea di non limitarsi alle parole, ma di adottare azioni concrete e coraggiose nel rispetto del Diritto Internazionale, sospendendo rapporti economici, militari, di collaborazione scientifica e tecnologica con lo Stato di Israele, e di applicare sanzioni nei suoi confronti, come fu fatto verso il Sudafrica dell’apartheid. Non si può continuare ad emettere vane condanne con vane parole di fronte alla tragedia del popolo palestinese, all’esproprio continuo della sua terra, alla violazione e alla negazione dei suoi diritti. Occorrono parole e fatti che portino a soluzione di pace”.
Massimo Occhipinti
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