Il 2020 passerà alla storia come “l’anno dell’epidemia di Covid-19” e questi giorni di quarantena hanno già coinvolto diverse generazioni che dal dopoguerra in poi non erano state mai così tanto direttamente immerse in un evento storico. Si tratta di una situazione di emergenza in cui abbiamo dovuto cambiare radicalmente e in poco tempo i nostri stili di vita e, per la prima volta, aspettare. Una cosa difficile da fare dopo che per più di mezzo secolo abbiamo avuto tutto e subito. Ma adesso dobbiamo aspettare: una cura, il vaccino, il calo dei contagi, le risorse per intervenire, la fine della quarantena. Molti di noi erano, forse, già sintonizzati sulle dinamiche di precarietà e di incertezza che si vivono quotidianamente in tutti gli ambiti della vita globalizzata, ma si erano ritagliati comunque un piccolo angolo di certezza nelle routines, nelle abitudini e nelle più svariate forme di svago che ci consentiva la nostra società. Ma adesso anche questo piccolo angolo è crollato e ci troviamo come tutti pervasi dall’ansia, dalla paura e dalla noia.
Tutte queste emozioni confluiscono nella narrazione in tempo reale della quarantena e, oggi più che mai, influiscono e risentono dei messaggi martellanti dei mass media relativamente ai quali abbiamo l’abitudine di esporci per la maggior parte della nostra giornata. Oggi più che mai, ci consentono di partecipare a questa narrazione in prima persona, fosse anche soltanto attraverso il profilo di un social network o una chat con un ristretto gruppo di contatti. Forse non avevamo ancora toccato con dito l’ampiezza pratica di queste connessioni, così come non siamo ancora del tutto consapevoli dei rischi che si celano dietro a una tale esposizione quando si viene bombardati da notizie false, distorte e travisate.
Per l’appunto, come è stato già analizzato da due articoli di Internazionale (quello di Daniele Cassandro e quello di Anna Maria Testa), una delle cornici più utilizzate all’interno di questa narrazione è proprio quella della guerra. Una scelta comunicativa che è stata inaugurata da figure istituzionali come il presidente francese Macron, il presidente della BCE Draghi, il commissario italiano all’emergenza Arcuri e persino dall’apprezzabilissimo intervento del primo ministro albanese Rama. Questi, molto probabilmente, intendevano sottolineare le misure straordinarie che si dovranno prendere per affrontare l’emergenza sanitaria “come se fossimo in un’economia di guerra”, ma che si sono poi sparse velocemente attraverso il messaggio “siamo in guerra contro il Coronavirus”. Telefono senza fili docet.
Certo la serietà dell’emergenza è innegabile poiché non abbiamo una cura definitiva, c’è un’alta mortalità tra gli immunodepressi e gli anziani, le nostre strutture sanitarie non erano pronte a gestire un alto numero di malati ed è difficile assicurarsi che le persone rispettino le misure di contenimento. Ma occorre dire che è preoccupante dover ricorrere ancora a toni propagandistici ottocenteschi per mobilitare la responsabilità e la solidarietà delle persone, in questo caso contro un virus. È vero che in molti casi nella storia la minaccia di un nemico comune è servita a rafforzare il senso di coesione e di collaborazione, ma è possibile fare la guerra contro un’entità biologica? È utile suscitare un tale sentimento di ostilità contro un “nemico biologico” che rischia facilmente di accompagnarsi al desiderio dell’annientamento totale di questo nemico? Una tale scelta comunicativa ricorda altri tempi in cui questa metafora “biologica” venne usata per propagandare la superiorità di una razza sulle altre.
Forse l’appello a una situazione di guerra non è il messaggio migliore da destinare a società, come le nostre, attraversate da conflitti sociali spesso legati a una sempre meno equa distribuzione della ricchezza e manifestati attraverso forme di relazione aggressive: l’incitamento all’odio e altri atteggiamenti prevaricatori sono tipici di tutti i fenomeni socialmente condannabili nell’attuale dibattito pubblico. Atteggiamenti che evidentemente non sono condannati da tutti e che alimentano ancora molti modelli sociali considerati desiderabili.
Un’altra considerazione è, poi, relativa alla percezione di coloro che lavorano nel contesto di questa emergenza comunicata come guerra. Il personale sanitario, i farmacisti, i cassieri, i magazzinieri, i camionisti etc. e persino le forze dell’ordine diventano degli “eroi al fronte”, equiparati a dei soldati il cui lavoro sarebbe “difendere il paese fino alla morte”. Quando, invece, in questa crisi persino coloro che fanno il mestiere di soldati non hanno il ruolo di “dare la vita per la patria”. Non si tratta di avere “qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace”, ma di cittadini che siano messi in grado si svolgere normalmente il proprio lavoro con dignità, avendo a disposizione DPI, luoghi di lavoro sicuri, retribuzioni corrette e decorose, previdenza sociale etc.
E questa è una cosa che dalle nostre parti non accade nemmeno in “tempi di pace”.
Infine, non è possibile fare la guerra alla natura e scaricare su di essa le responsabilità della nostra impreparazione: l’uomo che conosciamo oggi ha manipolato la natura in vista dei propri scopi, ha raggiunto un livello di sfruttamento delle risorse tale da stravolgere gli ecosistemi che per milioni di anni ne hanno permesso la sopravvivenza e l’evoluzione. Ha fatto, poi, lo stesso con i propri simili.
E dire che alle nostre società non è mancato il tempo per una revisione profonda della propria civiltà e della propria organizzazione che fosse in grado di preparare la gente alla prossima crisi. Adesso che la crisi è in atto bisogna affrontarla. Ma se ci ha preso alla sprovvista non è colpa di un virus.
Uno storico che ha posto le basi per gli attuali studi militari e al quale si sono ispirati anche molti attuali economisti, il generale prussiano Von Clausewitz, ha scritto:”La guerra non è mai un atto isolato” e “non scoppia mai in modo del tutto improvviso, la sua propagazione non è l’opera di un istante”. Forse questo è l’unico aspetto ad accomunare la guerra alla nostra attuale crisi.
Massimo Occhipinti
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