La seconda guerra mondiale e gli orrori della Shoah sono degli elementi che fanno necessariamente parte dell’esperienza delle generazioni che resistono. Sono quanto mai ineludibili mentre si presentano nuove forme di fascismo e riprendono coraggio le esaltazioni di quelle storicamente esistite. A queste si aggiungono le preoccupanti tensioni mai sopite nel Medio Oriente con le quali è stato inaugurato il 2020 tenendo il mondo con il fiato sospeso. Sembra un po’ come se l’Occidente stesse rispolverando i vecchi scheletri del proprio attrezzatissimo armadio.
In un clima come questo è importante riaffermare la centralità del Giorno della Memoria che fin dalla sua istituzione ha dovuto resistere al proliferarsi dei negazionismi e al fastidio di coloro che non digeriscono proprio il suo significato antifascista. Ma ha dovuto affrontare anche il rischio di una sua banalizzazione: l’inerzia della ripetizione istituzionale e la difficoltà di comprendere il nostro tempo possono prestare il fianco alla manipolazione della memoria e alla sua strumentalizzazione. Per evitare di “ripetere gli errori del passato”, come recita la retorica rituale, il ricordo dell’Olocausto deve rimanere vivo e, quindi, mantenuto in dialogo con le altre Memorie. Almeno due: l’Imperialismo Occidentale e la Questione Palestinese.
Attualmente l’attenzione internazionale è focalizzata sulla crisi tra USA e Iran e sull’intervento della diplomazia russa in Libia, ma il Medio Oriente rappresenta un vero e proprio rompicapo geopolitico. Le radici di questo rompicapo affondano nell’Imperialismo europeo del primo Novecento: alla fine della Prima Guerra Mondiale, infatti, Inghilterra e Francia si spartirono le spoglie dell’Impero Ottomano in Mesopotamia. Il mandato britannico sulla Palestina creò una contraddizione fondamentale: da un lato disattese le promesse di indipendenza fatte agli arabi in cambio dell’alleanza durante la Prima Guerra Mondiale, dall’altro appoggiava il progetto sionista di uno stato ebraico favorendo l’immigrazione massiccia di ebrei provenienti da ogni parte del mondo verso la Palestina.
Adesso sappiamo che le conseguenze delle politiche antisemite dei regimi fascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah hanno reso per sempre impossibile qualsiasi soluzione diversa dalla coesistenza di due stati in Palestina. Ma sappiamo, anche, che mentre lo Stato di Israele è uno stato sovrano dal 1948, lo Stato di Palestina proclamato quarant’anni dopo è ancora privo di un’organizzazione statuale tipica e parzialmente occupato da Israele. La questione palestinese è la madre di tutte le tensioni internazionali nel Medio Oriente dal secondo dopoguerra in poi e non può non lasciarci ancora indifferenti.
Non può lasciarci, oggi, indifferenti la continua costruzione di insediamenti israeliani all’interno dei cosiddetti “Territori Occupati” della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Le politche condotte dall’attuale primo ministro di Israele Benjamin Netanyhau rientrano nella strategia di Israele degli ultimi cinquant’anni: erosione graduale dei confini per mezzo della colonizzazione. Ciò ha provocato e continua a provocare gravi discriminazioni ai danni dei palestinesi con il beneplacito dell’aministrazione Trump e nonostante le gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani (qui i dati di Amnesty International).
Non possono lasciarci, oggi, indifferenti nemmeno le dichiarazioni di Netanyhau al Congresso mondiale sionista del 2015, quando affermò che Hitler volesse soltanto deportare gli ebrei e che l’idea di sterminarli fu del Gran Muftì di Gerusalemme, al-Husseini. Veri i rapporti tra al-Husseini e i nazisti. Vere le ostilità arabe alla formazione di uno stato ebraico. Ma giustificare l’attuale odio dei palestinesi nei confronti di Israele attraverso il ricorso a un antisemitismo atavico dei palestinesi significa saltare a piè pari settant’anni di conflitto e riabilitare pericolosamente il Nazismo. E, infatti, Netanyhau dovette immediatamente ritrattare quelle dichiarazioni e precisare che non intendeva sollevare Hitler dalle responsabilità della Soluzione Finale, mentre la Germania ricordava lapidariamente come essa ricadesse sulle spalle dei tedeschi. Ma un’uscita del genere gettata nell’internet non viaggia necessariamente in coppia con la sua smentita e nel turbinio dei bit la Memoria ha ormai subito un duro colpo. Che questo provenga da chi figura tra i massimi suoi depositari suona ancora più paradossale.
fonte web: YouTube Insider
Non può lasciarci, ancora, indifferenti la legge approvata dal Knesset (il Parlamento israeliano) di circa un anno e mezzo fa che definisce Israele come lo stato-nazione del popolo ebraico in barba al 20% degli arabi di cittadinanza israeliana che fanno parte della sua demografia e dei suoi rappresentanti in parlamento. Una legge che, in un certo senso, dice finalmente la verità su Israele: una democrazia che declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua speciale e che incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei (vedi l’articolo di Gideon Levy). Una legge che ha fatto immediatamente sollevare le proteste dei partiti di opposizione e del presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, e ha scatenato la rivolta dell’intellighènzia israeliana: gli intellettuali lanciarono, infatti, una petizione per chiederne l’abolizione per scongiurare la deriva fondamentalista (vedi qui se vuoi approfondire la questione).
Mantenere viva la Memoria della Shoah, oggi, significa non soltanto onorarla istituzionalmente, ma anche difenderla dai continui attacchi che portano con se rigurgiti fascisti. Per fare questo occorre metterla criticamente in dialogo con le altre Memorie e sforzarsi di comprendere il proprio tempo. Significa, oggi, poter dire di essere contrari alle politiche dello Stato di Israele senza essere tacciati di antisemitismo. La Memoria non è un ricatto.
Massimo Occhipinti
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