Si è recentemente consumato l’ultimo atto di una vicenda che si protraeva da quasi un decennio, una vicenda i cui protagonisti e dibattimenti intonano l’eco di una delle pagine più buie nella memoria collettiva di questo paese. Si tratta del recente provvedimento di condanna da parte della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) nei confronti dell’Italia in riferimento all’applicazione reiterata e al diniego della revoca delle misure detentive previste dall’ articolo 41 bis (il quale regolamenta con maggiori rigore e severità la detenzione per reati di associazione mafiosa, stragismo, terrorismo) nei confronti di Bernando Provenzano.
La CEDU, che non in un solo frangente ha messo in discussione il 41 bis, quanto semmai la sua applicazione al caso contingente, ha sanzionato l’Italia contestando l’adozione di provvedimenti giudiziari straordinariamente severi in condizioni ritenute non idonee e dunque destinate a divenire lesive per la salute psicofisica di Provenzano. Contestualmente la Corte ha anche ritenuto inconsistenti le valutazioni in merito alla pericolosità di Provenzano che avrebbero dovuto giustificare l’ulteriore applicazione del regime di 41 bis.
Si può così riassumere l’iter giudiziario di una vicenda iniziata con l’inasprimento straordinario delle norme detentive già applicate nel caso Provenzano, in seguito ai molteplici tentativi da parte del detenuto di entrare in contatto con l’esterno e proseguita con la diagnosi di un cancro alla vescica, un tentato suicidio scongiurato dall’intervento di una guardia carceraria e la conseguente richiesta da parte della famiglia Provenzano della revoca del regime di 41 bis, in seguito negata.
Il caso giudiziario rimane, però, in sostanza materia da giuristi sul quale dibattere ulteriormente rischia di generare una cronaca piuttosto sterile e ripetitiva. Perché allora non indugiare proprio su questo contesto? Un contesto che zoppica per una ferita mai completamente rimarginata diviso da un accadimento che se avesse coinvolto un anarchico o un terrorista sarebbe passato, certo sotto i riflettori, ma senza lasciare tanta gente febbricitante di schierarsi. In effetti, eccezione fatta per l’ovvia difesa del 41 bis da parte delle autorità competenti, la sloganistica e strumentale presa di posizione di Salvini e l’uscita sempliciotta e retorica di Di Maio, molti si sono spartiti le posizioni più disparate in merito alla questione. C’è chi si è abbandonato all’indignazione rancorosa, chi ha intravisto irregolarità procedurali da una parte e dell’altra e chi ha assunto una posizione più articolata dopo essersi posto una serie di domande cruciali: sono i mafiosi criminali comuni? Quanto è opportuno isolarli da ogni contesto? Che atteggiamento è opportuno assumere nei loro confronti?
I mafiosi non sono e non possono essere considerati come criminali comuni, in quanto soggetti dall’elevato potenziale destabilizzante e rappresentanti di una forza alternativa e antitetica a quella istituzionale, dunque intollerabile. Tali condizioni impongono l’impiego di ogni sforzo possibile perché ne siano arginati gli effetti, purché tali sforzi non si producano in violazioni o licenze da qualunque di quei diritti di cui anche i carcerati devono beneficiare, durante e in seguito a ogni eventuale giudizio (il caso specifico – è bene intendersi – più che a un effettivo e consapevole abuso potrebbe ascriversi a un mero eccesso di zelo, in virtù di inquietudini, in parte, comprensibili). Questo non perché lo Stato vada inteso come un istituto di misericordia, quanto piuttosto per coerenza verso la lotta per la difesa di quegli stessi obblighi evasi dai mafiosi.
Per il cittadino comune l’atteggiamento più consono non si profila tanto diverso da quanto esposto per l’ordine costituito: è, infatti, opportuno che ogni delitto, attentato o atto criminoso venga adeguatamente conosciuto, compreso e inequivocabilmente stigmatizzato. Quando però, la coscienza diviene ostinazione rancorosa ecco che la riflessione si fa sterile e retorica: in questo contesto risulta problematica qualunque analisi lucida e si perde il senso di come debba svolgersi il contrasto a fenomeni come l’attività mafiosa. Per quanto certi avvenimenti siano stati terribili, per quanto possano lasciare ancora oggi sgomento al solo pensiero, per quanto sia presuntuoso cercare di mantenere l’obiettività, la strada da percorrere non può essere quella dell’indignazione quando a Bernardo Provenzano devono essere riconosciuti dei diritti, non può essere quella della gioia irrefrenabile per la scomparsa di Totò Riina, quasi come se una sorta di giustizia karmica avesse pacificato ogni cosa.
Il percorso è molto più complesso e implica l’informazione e la sensibilizzazione a ogni livello sociale, l’osservanza dei regolamenti e degli atteggiamenti socialmente promossi, perché questo è l’unico modo, universale e partecipativo, di contrastare e prevenire ogni tipo di recrudescenza.
Vincenzo Crisicione
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