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Teatro Stabile di Catania: un caso di Coscienza Culturale

“Oh, il teatro drammatico! […] Quell’aria pesante chi vi si respira, m’ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio. […] non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d’azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d’un subito saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: è una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi!”
Luigi Pirandello

CATANIA E IL SUO TEATRO

Una città dipende dalla propria cultura. Una città senza cultura è incapace di fiorire. Una città senza cultura è una città morta. Occorre partire da queste tre frasi che, a prima vista, possono sembrare un puro e semplice atto di retorica e, invece, sono la pura essenza di quello che un ambiente idealmente dovrebbe trasmettere al cittadino per nobilitarlo. Scontato dire che sono molte le città (purtroppo) ad essere un semplice agglomerato di mattoni e di abitazioni, storicamente senza cultura e senza anima: nuove metropoli che si limitano ad essere degli alveari, che racchiudono l’ignaro cittadino e lo accompagnano quotidianamente, nel suo scialbo vissuto, dalla culla alla tomba. Poi, invece, esistono città che una cultura di base solida, almeno in linea teorica, dovrebbero possederla. Sono queste città lo sfondo peggiore di alcune scelte sbagliate di gestione che possono portare allo svanire della propria scena culturale. La morte culturale di una città a volte è un segreto di Pulcinella, sotto gli occhi di tutti, che fa apparentemente scalpore solo quando la verità non può più essere contenuta. Quando le istituzioni culturali di una città crollano: è allora che si tocca il fondo. Questo fondo, per l’ennesima volta, lo tocca la città di Catania, triste “teatro” dell’incedere verso l’abisso del suo teatro cittadino (ci scuserete l’angusto gioco di parole che rende, ciò nonostante, così bene l’idea). Il Teatro Stabile di Catania, infatti, sta vedendo sgretolarsi le sue fondamenta sempre più inesorabilmente. Un sogno nato nel 1958, nella piccola sala del teatro Angelo Musco, fondato dagli attori Turi Ferro e Michele Abruzzo, il notaio Gaetano Musumeci e Mario Giusti che diventerà Direttore Artistico del Teatro. Un sogno che, dopo gli ultimi scoraggianti accadimenti, rischia seriamente di vedere calare il sipario su di se in maniera indecorosa.

(IN)COSCIENZA CULTURALE

Catania, purtroppo, è lo specchio di un’Italietta sempre meno affamata di cultura e di sapere, che osanna sempre di più la tecnocrazia in nome di uno spersonalizzante e deformante sedicente progresso. Lasciando sempre più indietro l’arte, il sapere della cultura e la potenzialità che la Cultura stessa potrebbe donare alla nostra nazione. Una Cultura che arricchirebbe (in tutti i sensi) questo sempre più decadente Stato, in preda a un delirio nevrastenico di Crescita a tutti i costi. Un delirio che non fa altro che accrescere un esercito di precari, dall’esistenza quotidiana su un filo di rasoio. La Cultura è sempre più madre, sorella e figlia del precariato. I precari dello Stabile di Catania, in tutto questo, non hanno potuto più sostenere questo stato di assedio. Da mesi senza stipendio, una quarantina di lavoratori ha occupato in questi giorni il tetto del Teatro Verga, uno dei due enti (l’altro è il sopra citato Teatro Musco) che compongono lo Stabile etneo. Proclamato “lo sciopero fino a data da destinarsi per un ente stremato e non in grado di sopravvivere”. Un laconico commento dei lavoratori in agitazione, dopo l’affronto di quel pignoramento di poltrone avvenuto nel bel mezzo di una rappresentazione. Una riflessione, su tutta questa indegna situazione, è d’obbligo. Come è evidente, i tecnici senza stipendio sono solo l’ultima delle vittime di un catastrofico domino delle irresponsabilità. Ridotti a una vita precaria sono ormai tutti i membri della famiglia teatrale: la precarietà è anche di chi scrive i soggetti, di chi dirige le scene, degli attori che oramai sono costretti a compensi da fame e all’impossibilità di poter degnamente vivere del loro mestiere. Perché tutti costoro lavorano, e duramente, per vivere. Sono gli operai della cultura, coloro che si fanno in quattro per poterci strappare una lacrima o un sorriso (spesso amaro) quando ci sediamo nelle poltrone a guardare gli spettacoli. E operai, tanto quanto loro, sono tutti quelli che stanno dietro le quinte, a sorreggere tutto il complesso meccanismo che deve mandare avanti uno spettacolo. Le luci, i costumi…tutto quello che diamo per scontato quando guardiamo qualcuno recitare. Ed è solo la punta dell’iceberg. Fa male vedere un’istituzione culturale scomparire perché quando accade qualcosa del genere è come se una parte della città morisse.

Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia”, affermava beceramente un ministro qualunque, di un qualunque Governo, che si meriterebbe di diritto il peggior posto nel dimenticatoio collettivo. La Cultura è qualcosa che dobbiamo tenerci stretto, non dovremmo lasciare che qualcuno ce la porti impunemente via. Siamo più nudi senza cultura. Siamo spettri, diversi e assolutamente peggiori di quei “fantasmi” che stanno sul palcoscenico, ma sono più vivi di noi stessi perché, a differenza nostra, essi rappresentano davvero qualcosa. Citando nuovamente Pirandello, “Un personaggio […] può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre «qualcuno». Mentre un uomo […] un uomo così in genere, può non essere «nessuno».”
La possibile caduta del Teatro Stabile, pertanto, è una sconfitta per tutta la città. Siamo sempre più immersi in un qui ed ora senza tempo. I social network scandiscono il nostro tempo e tutti siamo malati di presentismo, abbiamo dimenticato il passato e non riusciamo a immaginare il futuro (anche chi scrive questo articolo, nessuno di noi ne è immune, purtroppo). Non ci stiamo accorgendo che, così facendo, diventiamo ogni giorno sempre più poveri, con qualche spot televisivo in più a frullarci nella testa e meno anima nel corpo. Leggiamo sempre meno. Comunichiamo sempre meno fra di noi. Ogni giorno di più ci spegniamo.

Simone Bellitto

One Comment

  1. CARMELO CARMELO 11/03/2017

    SONO UN PRECARIO DEL TEATRO STABILE MI TROVO DISOCCUPATO E A CASA X 2 ANNI E HO LAVORATO X 20 ANNI CON CONTRATTINI DA POCHI MESI E TUTTO UNO SCHIFO GENTE CHE E ENTRATA DOPO DI ME LAVORA ED IO A CASA CHE SCHIFO!!!!! DIO CE …..

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