Press "Enter" to skip to content

La povertà minorile spiegata in un Atlante

Intervista a Giulio Cederna, Elena Scanu Ballona e Diletta Pistono, di Save the Children Italia, che hanno realizzato L’Atlante dell’infanzia (a rischio), uno studio sulla povertà educativa dei minori in Italia, giunto alla sesta edizione. L’edizione del 2015 prende il titolo di “Bambini Senza” e si focalizza particolarmente sul nesso tra le deprivazioni che subiscono i bambini e la rete della criminalità.

Da dove nasce l’idea di redigere un Atlante dell’infanzia (a rischio)?

Giulio: Diciamo che Save the Children da tanti anni fa progetti specifici in Italia, che si sono concentrati inizialmente più su due aspetti: quello dell’universo migranti, soprattutto in Sicilia e in Puglia, e quello delle nuove tecnologie. Però, a un certo punto, sei anni fa, quando è scoppiata la crisi, da Save the Children – Europa è arrivata l’indicazione di guardare più in profondità non solo i Paesi terzi, ma anche i fenomeni di povertà di ritorno in Italia e nei Paesi europei. Quindi, per cercare di capire come strutturare questi programmi e quali erano le priorità da affrontare, è nata l’esigenza di fare una ricerca sull’infanzia a rischio in Italia. E quindi è nata l’idea di un lavoro che avesse un approccio geografico. Non parlare di infanzia in generale, ma rapportarla al fattore geografico. Quindi abbiamo raccolto e messo insieme tutti questi dati per vedere qual era il quadro che emergeva. E da quel momento abbiamo individuato questo metodo di lavoro, ogni anno cercando di trovare un filo conduttore diverso ci permettesse di far dialogare questi dati.

Interviene Elena: Ogni anno dobbiamo diversificare gli atlanti, perché alcuni dei dati non cambiano da un anno all’altro in maniera sensibile. Però il filo conduttore ci permette di diversificare. Noi cerchiamo di lavorare avvicinandoci ai ragazzi in carne ed ossa per capire quali sono le aree di criticità, ma anche quelle di opportunità che possono venir fuori dai dati.

È molto interessante questo approccio che guarda alla territorializzazione.

Elena: Sì, anche perché in Italia- non è una novità- ci sono grosse differenze territoriali tra nord e sud. Per cui se una media nazionale può dare un’indicazione generale, non sempre poi descrive la situazione del singolo territorio. Questo si vede molto bene quando si guarda all’accesso per i bambini ai nidi per l’infanzia o dai risultati scolastici o nell’occupazione giovanile.

bambinisenzaÈ molto particolare il fatto che l’Atlante sia quasi interattivo: ricco di infografiche, di foto, etc: come avete fatto, anche da un punto di vista metodologico, a lavorare in questo modo?

Diletta: Il lavoro è multidimensionale perché Giulio ha viaggiato insieme a Riccardo Venturi, che è un fotografo molto quotato, per l’Italia, andando ad incontrare molte organizzazioni e associazioni. E Riccardo ha scattato queste foto che ovviamente sono una parte importantissima per l’Atlante. Allo stesso tempo si fa un lavoro di desk sull’elaborazione di dati e di fonti sia istituzionali che open data. Insieme a dei mappatori questi dati noi li elaboriamo, decidiamo quali sono quelli importanti, cechiamo di trovare il modo più diretto per rappresentarli in una mappa.

Elena: Il tentativo è quello di rendere più semplice la comprensione dei dati anche ai non addetti ai lavori, ma la mappa e i dati non esauriscono completamente quella che è la realtà dei territori.

Diletta: Poi c’è un altro livello che è la scrittura, che viene fatta una volta raccolti tutti questi dati e deciso come collegarli alle esperienze territoriali viste attraverso i sopralluoghi di Giulio. In questo livello di scrittura tutto viene messo insieme. Quindi usiamo questo metodo per incrociare le diverse modalità di racconto: la fotografia, i dati, i testi, che sono ovviamente il punto forte dell’Atlante, perché tutto è ben raccontato, ben argomentato. Certo una lettura un po’ faticosa, perché ricca di stimoli.

È molto interessante la narrativizzazione delle storie, in particolare nel primo capitolo, che tratta di infanzia e mafia e in cui si parla di storie di manovalanza anche militare di minorenni: come vi siete trovati a lavorare su argomenti del genere?

Giulio: Noi partiamo sempre dal punto di vista dei ragazzi. Ci sono le vittime innocenti, ed è incredibile che si debbano ancora contare i bambini uccisi da pallottole vaganti, ma sono altrettanto vittime ed è altrettanto incredibile che dei ragazzi di quattordici, quindici anni finiscano per ingrossare e a fare gli interessi di chi li arruola e diventino carne da macello pure loro. Quindi innanzitutto quello che abbiamo cercato di fare è stato parlare delle vittime dirette e anche delle vittime indirette. Contrastando la povertà minorile, contrasti anche quella deriva lì dei ragazzi che vengono strumentalizzati e diventano parte del sistema mafioso. Per questo crediamo che questo Atlante abbia un significato da questo punto di vista. Cominciare dalla mafia non è stato casuale. Siamo andati a trovare un punto che sembra lontano dalla povertà e che invece è centrale: dov’è che vengono arruolati ragazzi? Nei quartieri periferici, dove non ci stimoli o alternative.

Un altro punto molto interessante dell’Atlante è quello in cui si parla di bambini piccoli reclusi in carcere insieme alle madri e in particolare del caso di madri condannate per reati di mafia. L’ambiente criminale sembra quindi essere totalitario e influenzare ogni aspetto della vita compresa la maternità: qual è la vostra opinione sull’argomento?

Elena: È anche il caso in cui i bambini vanno a vedere il genitore recluso. Il carcere per questi bambini dovrebbe essere un posto più accogliente, che non li spaventi. Anche questi bambini che hanno un genitore detenuto hanno il diritto di poter vivere il rapporto col proprio genitore.

Giulio: Una visione interessante è quella di padre Fabrizio Valletti, del Centro Hurtado di Napoli, che dice fondamentalmente che c’è la visione un po’ rozza, magari comprensibile per qualcuno che è stato ferito, che per chi ha a che fare con la mafia non c’è niente da fare, buttiamo la chiave. E facendo così si trascura l’aspetto del nucleo genitoriale che rimane fuori dal carcere. Anche perché lo Stato investe pochissimo. Uso parole molto forti: si fa pochissimo per le famiglie dei mafiosi e anche con i bambini, che spesso sono piccolissimi. Piano a piano comincia poi un processo identificativo con il padre che sta in carcere. Come possiamo rompere questo meccanismo? L’unico modo è, anziché dire ‘lasciamoli marcire’, ‘stiamo vicini a queste famiglie, siamo presenti e offriamo ai bambini dei modelli alternativi’.

L’Atlante non è un mezzo puramente informativo, ma anche operativo, per permettere poi a Save the Children di agire sul territorio. Quali sono le iniziative che Save the Children sta portando avanti nei territori?

Diletta: L’Atlante, come le due “campagne Italia” che abbiamo fatto negli ultimi due anni, come anche il rapporto Illuminiamo il futuro, si occupa molto di povertà educativa. Che significa non solo che c’è solo la povertà assoluta, ma ci sono anche bambini vincolati dalla trappola della povertà: cioè, se non hai stimoli, probabilmente, hai molte probabilità di rimanere in una condizione di deprivazione anche da adulto. Da due anni abbiamo iniziato a realizzare su tutto il territorio dei centri polivalenti- adesso sono 16- che sono i Punti luce, per i minori dai 6 ai 16 anni, in territori molto difficili, come le periferie delle grandi città. Seguiamo i bambini sia per quanto riguarda l’attività formativa e l’accompagnamento allo studio, ma anche per consentire a questi bambini di seguire le proprie aspirazioni, o di scoprire quali sono i propri talenti. Sulla povertà educativa, da un lato Save the Children utilizza gli studi come l’Atlante per intervenire sul territorio, dall’altro come analisi per individuare le politiche sull’infanzia che sarebbero ottimali, per attività di advocacy, di pressione sui decisori politici, perché essendo una grande organizzazione, noi riusciamo ad avere peso anche sulle decisioni del governo, delle regioni e dei comuni.

Giulio: C’è anche la possibilità per i bambini segnalati dai servizi sociali di avere una piccola dote educativa, che viene data alla famiglia per il bambino, per, ad esempio, comprare un violino o pagare un corso sportivo. Quindi c’è sia un lavoro sul piano collettivo per tutti i ragazzi, sia un lavoro specifico individuale, per cui per un anno viene data questa dote e si cerca di dare quella possibilità che quella famiglia non ha. È una cosa sperimentale che Save the Children sta facendo, per cui è stato avviato un programma di monitoraggio per capire questo approccio che tipi di risultati darà nel lungo periodo. Molto interessante è anche l’iniziativa Crescere al Sud, questa alleanza di organizzazioni promossa da Save The Children con Fondazione con il sud per cercare di mettere in rete le diverse realtà sul territorio, quindi ci sono grandi organizzazioni nazionali, ma anche piccole realtà locali che così mettono un tavolo in comune, si scambiano metodologie e cercano di fare rete.

 

Intervista di Giuseppe Cugnata

Be First to Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *