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Rebibbia, la birra e il reinserimento sociale

Vale La Pena

Il birrificio ‘Vale La Pena’ sta in Via della Colonia Agricola, a pochi chilometri a nord dal raccordo anulare. Ma ‘Vale La Pena’ non è un semplice birrificio: l’impianto nasce infatti come progetto di reinserimento sociale per alcuni detenuti del carcere di Rebibbia. L’autobus che ci accompagna (il secondo che ci tocca prendere) ci lascia in piena campagna e dobbiamo fare qualche passo per arrivare a destinazione.

birrificio Vale La Pena

È mezzogiorno quando raggiungiamo la struttura che sorge alle spalle dell’istituto agrario ‘E. Sereni’ e subito facciamo la conoscenza di alcuni dei ragazzi del progetto, che nel frattempo stanno apparecchiando all’aperto per pranzo. Un gatto ci scorrazza attorno mentre nell’aria si è diffuso un ottimo odore di carne arrosto. Nel frattempo è arrivata Valentina Perlangeli, giovane dottoressa attratta come noi dalla particolarità del progetto e, dopo qualche minuto, Benedetta Piola Caselli e Francesco Ricciardi, avvocati del foro di Roma, particolarmente attenti alle tematiche sociali. È stata Benedetta ad invitarci all’incontro.

Fatte le dovute presentazioni, ci accomodiamo per pranzare. Paolo Strano, presidente della Onlus “Semi Di Libertà” da cui è nato il progetto, ci racconta la storia del birrificio, che è stato cofinanziato dal Ministero della Giustizia e dal Ministero dell’istruzione. Il progetto, iniziato a settembre 2014, si è articolato in una serie di lezioni tenute da alcuni tra i più importanti birrai italiani, che hanno insegnato agli studenti dell’istituto Sereni e ai detenuti le tecniche per produrre la birra.

Le ricette sperimentate a lezione sono poi state riproposte a progetto finito, entrando a far parte dell’elenco delle specialità del birrificio.

Le birre hanno tutte dei nomi a tema: c’è la Le(g)ale, la Sentite libbero, la Drago’n cella (aromatizzata appunto col dragoncello, una pianta aromatica locale) o la Chiave de cioccolata (nel gergo carcerario, la “chiave de cioccolata” è la chiave della cella che viene data ad un ergastolano, come ci spiega Patrick, uno dei detenuti che lavora al birrificio: inserendola nella serratura, si scioglie).

IMG_3018A tavola abbiamo l’occasione di valutare questioni spesso lasciate a margine nel dibattito pubblico. “Non abbiamo nessun pregiudizio verso nessun tipo di reato- ci spiega Paolo mentre finiamo di mangiare, e continua- abbattere la recidiva (ossia la commissione dello stesso reato o di altri reati da parte del detenuto tornato in libertà, ndr) è la missione di questo progetto. La recidiva ha numeri paurosi, parliamo del 70% per i detenuti che non sono inseriti in progetti come il nostro. E la recidiva ha dei costi mostruosi di cui non parla nessuno perché assolutamente impopolare. Prima parlavamo di quanto costa mantenere un detenuto in carcere: 3700 € al mese. Il problema è che non è solo un sistema costoso, è un sistema che genera altri detenuti. Innanzitutto perché quando appunto tu stai là dentro senza far nulla per 24 ore al giorno esci da lì che sei una macchina da guerra, completamente disadeguato a quello che poi è il mondo.” Paolo ha lavorato per diversi anni come fisioterapista al carcere di Regina Coeli e ha quindi potuto toccare con mano la durezza della vita nel carcere: “Noi non siamo dei buonisti- continua- se tu hai commesso un reato è giusto che paghi, il reato va scontato, ma non va pagato in quel modo. A parte in termini di umanità: non si può infliggere a quelle persone un tipo di vita come quella che viene inflitta attualmente nelle carceri italiane. Ma il problema grosso è che è un sistema che genera altra violenza, genera altri reati, genera un sistema ancora più costoso, quindi è un sistema completamente controproducente, infatti una cosa che è molto interessante e che ci avviamo a fare è proprio valutare quanto noi facciamo risparmiare allo Stato, cioè per ogni euro che è stato investito in questo progetto, quanto poi noi dopo un anno, due anni o dieci anni facciamo risparmiare concretamente allo Stato.”

IMG_2959Soddisfatti per l’ottimo pranzo ci alziamo da tavola. Paolo ci porta all’interno del piccolo stabilimento e ci mostra le fasi del processo di produzione della birra, dalle materie prime fino alla fermentazione. Le birre di ‘Vale La Pena’ sono fatte perlopiù con materie prime raccolte a chilometro zero, dalle erbe aromatizzanti al “farro prodotto dalla scuola a centimetro zero e completamente biologico che abbiamo usato per fare una birra che per ora è in fermentazione”, come spiega Paolo. Perfino le trebbie esauste dei cereali dopo la filtrazione non vengono buttate: “Tutto si riutilizza, noi non buttiamo nulla- afferma Paolo e continua- queste al momento le diamo alla scuola per concimare, sono perfette come alimentazione per la mucca da latte e sono ottime anche in panificazione, noi sicuramente ci faremo delle pizze con queste trebbie perché hanno delle caratteristiche particolari.” Concludiamo il viaggio all’interno del piccolo stabilimento e Paolo ci racconta che tra i progetti per il futuro del birrificio c’è anche quello di realizzare una micro-malteria in grado di maltare piccole quantità di cereali (la maltazione è il processo a cui vengono sottoposti i cereali che servono per la produzione della birra, primo tra tutti l’orzo, ndr): “La malteria è l’anello mancante in Italia in questo momento. Perché non è sostenibile dal punto di vista economico. Noi invece possiamo farlo perché, per prima cosa, non abbiamo il fine di guadagnare, seconda cosa, verrebbe finanziata quindi possiamo sostenerla, che non è poco.” Ringraziamo Paolo della splendida giornata e per l’ottima birra e torniamo a casa, fiduciosi che la rieducazione e il reinserimento sociale siano la vera alternativa al dramma del vivere carcerario.

Giuseppe Cugnata

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