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Giuseppe Serrantino, ricercatore di mafia

peppe serraGiuseppe Serrantino è un ragazzo catanese di 38 anni. Dopo la laurea in Storia e Filosofia, si è trasferito a Londra per continuare gli studi. Qui, tra il 2006 e il 2007, ha conseguito un Master in Scienze Sociali presso la Brunel University (West London). Dopo alcuni anni di esperienza lavorativa nel campo della ricerca sociale ha deciso di iniziare un dottorato di ricerca presso la Middlesex University (London). Il suo progetto riguarda un’analisi della crisi politica degli anni tra 1992 ed il 1994 a Catania al fine di comprendere se e come la crisi abbia portato delle trasformazioni nel sistema di potere della prima Repubblica basato su quei network criminali che vedevano la cooperazione fra economia monopolista, politica clientelare e organizzazione criminali.

Giorno 1 aprile, Generazione Zero e Fuci Ragusa presenteranno a Ragusa il libro di Salvo Ognibene “L’eucaristia mafiosa”, in cui ci si interroga sul ruolo del simbolismo religioso nel mondo mafioso e, soprattutto, sul ruolo che i preti hanno avuto nei confronti delle organizzazioni criminali. Qual è la tua posizione?

Il rapporto Chiesa-Mafia è molto vasto; in tal senso oltre il libro da te citato, L’eucaristia mafiosa, esistono altri lavori sul tema (per esempio La Mafia Devota, di Alessandra Dino e Acqua Santissima di Nicola Gratteri) che evidenziano sia il ruolo che certa Chiesa ha purtroppo avuto in passato nel negare l’esistenza della mafia, sia la “religione dei mafiosi”, che trasformano il messaggio religioso in un codice individuale che giustifica le loro azioni.
Per quanto riguarda il primo aspetto credo si possa fare un parallelismo tra Stato e Chiesa nei confronti della Mafia. Anche nella Chiesa ha in passato prevalso un atteggiamento di minimizzazione, e a volte negazione, del fenomeno criminale per interessi politici o economici, e anche nella Chiesa si sono avuti casi di minorità eccellenti come Padre Puglisi e Don Diana, che invece la Mafia l’hanno combattuta senza l’appoggio delle alte gerarchie religiose che essi stessi servivano e in cui credevano. Come spesso tristemente accade, il loro isolamento è stato il punto debole che ha causato la loro morte.
Oggi Papa Bergoglio, sia in Calabria che recentemente a Napoli, sembra aver cambiato direzione, denunciando la Mafia apertamente, mettendo a rischio l’aderenza culturale che i clan hanno sul loro territorio, basata proprio sul loro essere uomini di credo religioso e quindi accettati dalla società. L’azione del pontefice in questo senso, dopo grandi e ingiustificabili ritardi da parte della Chiesa istituzione, con le uniche eccezioni del Card. Pappalardo a Palermo dopo la morte di Falcone e di Papa Woytyla ad Agrigento, può ridurre il riconoscimento sociale dei boss, cosa che, se sostenuta dal popolo dei credenti e dei non credenti di buona volontà, potrebbe risultare esiziale per le organizzazioni mafiose.

È di qualche settimana fa la notizia dell’inchino di una candelora di Sant’Agata davanti casa del presunto boss mafioso Massimiliano Salvo. Qualche giorno fa, invece, i due giornalisti di MeridioNews, che pubblicarono la notizia, sono stati querelati per diffamazione. Che ne pensi?

Il controllo delle feste religiose da parte dei clan militari è purtroppo una storia vecchia che dà riconoscimento sociale e culturale ai boss militari i quali poi possono influenzare la società anche in chiave elettorale. Per questo motivo la classe politica non è molto propensa a prendere provvedimenti, traendo anzi vantaggio da questo fenomeno. Uno dei tanti circoli viziosi che caratterizzano il crimine organizzato: chi dovrebbe combattere il controllo delle feste religiose da parte dei clan è lo stesso soggetto sociale che prende vantaggio da quel controllo. La querela ai due giornalisti conferma il fatto che l’anti-mafia in Italia è sempre stata il risultato dell’azione di singoli e isolati soggetti che in quanto tali hanno spesso la peggio. Non c’è mai stata un’azione corale dello Stato contro le organizzazioni criminali. Il giudice Giovanni Falcone è un esempio; in vita era attaccato, controllato, limitato, umiliato dalle stesse istituzioni che serviva. Una volta morto, non essendo più pericoloso, fu definito un eroe da quella stessa classe dirigente che in vita ne aveva limitato l’azione con tutti i mezzi.

Il tuo progetto di dottorato è pienamente incentrato su Catania, la tua città natale. Che “odore” ha per te?

Catania, a differenza di Palermo, è molto meno conosciuta nella letteratura accademica. È una città che rappresenta una serie di occasioni perse, abusata e resa invivibile da scelte prese da pochi individui facenti parte di quel partito trasversale formato da mafiosi, imprenditori e politici che lungo i decenni hanno malformato il tessuto urbano e culturale per il loro privato beneficio. Molto purtroppo è irrecuperabile, e tristemente non vedo nessun segnale di ripresa. Come diceva il Vice Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Claudio Fava, nel suo libro ‘La Mafia comanda a Catania’ : “mentre a Palermo la mafia uccideva, a Catania governava”, e credo che, se per mafia non si intende il mero gangster che chiede il pizzo al piccolo commerciante, questa frase sia ancora una chiave di lettura validissima per comprendere la città e le sue ombre. Catania è aggressiva, sporca, violenta, disordinata, abbandonata, e soprattutto rassegnata a se stessa, come se avesse accettato per uno stupido fatalismo la sua condizione di città da terzo mondo. Tuttavia rimane sempre la città dove sono nato e in parte cresciuto e, anche se mi ha offerto pochissimo e mi ha quasi costretto ad andare via, rimane un luogo che amo tantissimo, sentimento che mi reca tanto dolore ogni volta che la vedo purtroppo peggiorata.

Cosa significa sviluppare un progetto simile a Londra, quali difficoltà incontri con gli stranieri e, invece, quali vantaggi ritieni possano avere?

Dal 2012 tengo un corso su Mafia e Anti-Mafia presso il College Babilonia School di Taormina per laureandi di diverse università Americane. Il prossimo mese terrò 5 lezioni presso la Auburn University in Alabama. Le maggiori difficoltà che incontro con gli stranieri (e che penso incontrerei tristemente anche con gli italiani) sono quelle di far comprendere come la Mafia non sia solo ciò che i media tendono a descrivere, ovvero un fenomeno criminale violento, fatto di padrini e coppole; ma come invece non si possa prescindere dall’arena politica e da quella economica se si vuole veramente comprendere un fenomeno che penso rappresenti la più grossa minaccia alla nostra democrazia. Se di pregi si può parlare, forse gli stranieri sono meno sottomessi, rispetto agli italiani, a quegli inganni culturali che dipingono la Mafia esclusivamente con le facce dei boss e con i cadaveri per strada. Quindi è più facile far comprendere la complessità del fenomeno a cittadini di altre nazioni.

Intervista realizzata da Simone Lo Presti

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