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Alan Lomax e la rivoluzione culturale del Blues

“Tutti cominciamo a sperimentare la malinconica insoddisfazione che appesantiva i cuori dei neri del delta del Mississippi, la terra in cui e nato il Blues: un senso di anomia e alienazione, l’assenza di radici e antenati; la sensazione di essere merci più che persone.”

Alan Lomax

Radici

Secondo l’Enciclopedia Treccani l’etnomusicologia ha come oggetto di studio “l’insieme delle tradizioni musicali che non rientrano nella musica colta europea e che comprendono invece tutte le espressioni musicali legate a gruppi etnici o sociali, tramandate principalmente per via orale.” Quindi, in un certo qual modo, tutti quei suoni provenienti da reconditi angoli del mondo, note sconosciute ai musicomani borghesi, ai melomani radical chic di tutte le epoche che si impomatavano i nasi prima di assistere alle scene dai lussuosi palchi dei teatri. La musica delle radici, delle origini, ha un luogo di nascita, di origine, di diversa natura. Un’operazione ancora meno colta, perchè volta a indagare le periferie, i campi di cotone e le workhouse di inizio Novecento, la fece un giovane studioso, appassionato e amante della musica tradizionale americana, che sconvolse nel vero senso della parola le regole del gioco musicale. Il suo nome, che diverrà famoso nel corso delle decadi, era Alan Lomax (1915 – 2002). Quest’uomo, in uno storico viaggio assieme al padre, John Avery Lomax (1867 – 1948), si spinse fino ai recessi del profondo Sud statunitense figlio della Grande Depressione e del New Deal, per registrare suoni, musica e cultura delle popolazioni viventi in quelle sperdute zone, con grande attenzione, forse per la prima volta, ai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa nei secoli precedenti. Fu qui che nacque la rivoluzione musicale di Alan Lomax, potente quanto una rivoluzione politica, cioè qella che renderà noto al mondo, con le registrazioni che poi confluiranno nelle registrazioni dell’Archive of American of Folk Song della Biblioteca del Congresso, la musica che darà il via alla modernità: il Blues.

Blues: vivere (e morire) per la musica

Durante la Seconda Guerra Mondiale, Lomax è indagato dall’FBI per presunte attività sovversive: “L’investigazione condotta tra i vicini dimostra che è un individuo molto strano: si interessa soltanto di musica folk, è davvero poco affidabile e scontroso. […] Non dà alcun valore ai soldi, usa la sua proprietà e quella del governo con negligenza, praticamente non si cura del suo aspetto”. In realtà a Lomax importava davvero ben poco di quello che il bureau potesse pensare di lui. Il suo unico interesse era per cogliere le radici dell’anima musicale che, non sta solo negli afroamericani, ma sta dentro ad ognuno di noi. Il blues sembrava la personificazione musicale di quello che lui stava cercando. Fra i campi di cotone e le prigioni trovò un vero Olimpo di divinità umane, troppo umane. Collaborò in quegli anni col militante comunista, nonchè folk singer, Woody Guthrie, che già aveva scritto canzoni di protesta che sapevano di epoca di contestazione. Fu anche così che scoprì la vocazione della ricerca per quegli uomini dimenticati, da Dio e dagli altri uomini, che solo nella musica potevano esprimere la loro condizione sociale. Scoprì così le maledette storie dei musicisti ciechi, come Blind Willie Johnson, accecato con l’acido quando era bambino. Oppure le giornate massacranti passate nei campi di cotone da parte di Muddy Waters, che suonava per qualche spicciolo nei weekend a feste e pic-nic. O infine il caso più emblematico: quello di Huddie William Ledbetter. Meglio noto come Leadbelly, fu uno dei bluesman delle origini dalla vita più movimentata. Una vita passata fra campi di cotone, fughe e prigione. Fu proprio da una di queste prigioni che fu tirato fuori da Lomax, che convinse il governatore a dargli la grazia. Nel frattempo, assieme, i due avevano registrato un centinaio di canzoni popolari riarrangiate con la chitarra in chiave blues. Il blues diventò, così un istituzione: fu, in fondo, anche grazie a Lomax se nacque il blues rurale dei già citati artisti; il blues urbano del “maledetto” Robert Johnson e, in conclusione, di tutti i grandi artisti che renderanno questa musica celebre e indimenticabile nel dopoguerra, da John Lee Hooker a B.B. King. Una rivoluzione musicale era compiuta. Mezzo secolo di musica “pesante” o “leggera” forse nemmeno esisterebbe. Lomax, nel dopoguerra ebbe anche il tempo, in un altro viaggio musicale, di visitare l’Italia, per cercare le stesse radici popolari trovate nel profondo oscuro sogno americano infranto. Incontrando i pescatori delle tonnare, i pastori, i minatori, assieme al musicologo italiano Diego Carpitella girò per tutta l’Italia, dal profondo Nord al profondo Sud, per l’ultimo tentativo di salvare tradizioni musicali che stavano per essere spazzate via da quella stessa rivoluzione musicale (o dalla sua degenerazione) che lui stesso aveva suscitato. Incontrando intellettuali come Alberto Moravia o Vittorio De Seta, Lomax riuscì a comprendere meglio, forse, di tanti altri presunti intellettuali che interi patrimoni intellettuali e culturali stavano per essere annichiliti da quella mercificazione culturale già denunciata anche dalla Scuola di Francoforte. Il sogno di Lomax era quello di rendere nota ai più quest’immensa ricchezza. Il suo sogno, nonostante il fumo negli occhi che la massificazione avanzante ha sprizzato senza scrupolo. Perchè, in fondo, come Alan Lomax sosteneva: “quando tutto il mondo sara stanco della musica video elettronica distribuita in massa, i nostri discendenti ci disprezzeranno per aver buttato via la parte migliore della nostra cultura”.

Simone Bellitto

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