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Intervista a Costanza Quatriglio, regista del film “Con il fiato sospeso”

La storia legata alla facoltà di Farmacia di Catania è una storia di segreti e morte. Qualche giorno fa abbiamo tracciato una cronologia essenziale dei fatti, da cui saltano fuori date e nomi, indagini e processi. 
Abbiamo così pensato di sentire Costanza Quatriglio, regista di “Con il fiato sospeso”, film ispirato alle vicende della facoltà catanese.

“Con il fiato sospeso”, perchè questo titolo?
Questo titolo nasce da una suggestione molto precisa: se l’ambiente dentro il laboratorio di chimica era insalubre e, se come dice Emanuele Patanè nel suo diario, i ragazzi erano costretti a trattenere il respiro, allora, in qualche modo, l’idea di un’apnea, di una bolla, mi sembrava un’immagine molto forte, e anche perché vivere con il fiato sospeso, significa un po’ vivere senza sapere cosa ti succederà un domani, nell’insicurezza, nella precarietà e nell’ansia del futuro. Con il fiato sospeso ha quindi più di un significato.

Come mai ha deciso di dedicare un film alla vicenda del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Catania?
Credo che questa sia una storia emblematica di come l’università non sia all’altezza dei propri figli, di come la società abbia letteralmente lasciato morire le generazioni più recenti, per cui ho capito che questa è una vicenda importante non solo dal punto di vista della cronaca, ma anche per quanto riguarda un racconto reale di un Paese reale e di come si comporta esso con i giovani.

Dopo l’uscita del film, ci sono state delle critiche da parte dei “poteri forti” dell’Università di Catania?
No, dopo l’uscita del film non c’è stata nessuna critica da parte dell’Università di Catania, ma anzi c’è stata un’ottima apertura. Il film è stato presentato a Catania al cinema King per diverse settimane e alla serata di presentazione c’erano molti professori, nonché il sindaco Bianco. È vero, non c’era il Rettore e questo è chiaramente un segnale di distanza, ma non posso dire che ci sia stata una critica, piuttosto, secondo me, c’è stato molto rispetto. Mi sembra di poter dire che anche l’Università ha capito che questo non era un film che voleva puntare il dito contro qualcuno di loro, oppure fare scandalo: è stato un film che ha messo in guardia dai pericoli della cattiva gestione, un film sincero.

Al di là della vicenda reale, si può considerare questo film come una critica all’intero sistema scolastico italiano? A cosa mira il film?
Il film punta a mettere il dito nella piaga di un sistema universitario, scolastico e di formazione che ha tradito la sua missione e in questo modo a far intuire che i padri e i professori a volte tradiscono, per cui è chiaro che risulta un sistema che ha fallito il proprio scopo. Sicuramente il film cerca anche di dire questo e raccontare quanto amore, quanta passione c’è nei ragazzi.

Off-topic dalla vicenda catanese: in un’epoca contrassegnata dal cinema dozzinale e mainstream, unicamente votata alla logica del profitto, pensa che ci possa essere ancora spazio per un tipo di cinema controcorrente che il suo film rappresenta?
Secondo me c’è sempre spazio per un altro tipo di cinema, l’importante è non farsi scoraggiare e lavorare sempre con l’idea che le scorciatoie non portano da nessuna parte, che la fatica viene sempre ripagata. Lavorare perché un certo tipo di cinema superi l’autocensura che purtroppo è molto frequente e cercare di cambiare le cose dall’interno.

 

Intervista di Sebastiano Cugnata

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