«Io lunedì non apro. Pago circa 7000 euro all’anno solo di immondizia, per non parlare delle altre tasse. Sono davvero incazzata! Lavoro sedici ore al giorno e per cosa? Manco vendessi gioielli!». Così la proprietaria di un panificio nei pressi del fiume Dora, a Torino, mentre con forza strappa lo scontrino dal registratore di cassa. «No no, io lunedì non apro. Niente da fare», anche dal tabaccaio arriva la stessa sentenza. Niente sigarette e accendini lunedì.
Domenica pomeriggio alla stazione ferroviaria Porta Nuova, un controllore della GTT (Gruppo Torinese Trasporti) fuma una sigaretta con due suoi colleghi, intenti a scambiare un paio di parole con una coppia di colore. Sicuramente i due disgraziati non avevano il biglietto. Mi avvicino al controllore lentamente e col biglietto tra le dita, lui si stacca dai suoi colleghi e dopo aver dato un’occhiata al mio biglietto decide che vale la pena di parlare con me: «No, noi domani non facciamo sciopero. L’abbiamo fatto l’altra settimana e se il sindacato non ci dà ulteriori motivi, noi lavoriamo. Però sai, non si sa mai, non vorrei che pensassi che domani ci saranno tutti gli autobus e invece poi alla fine non ce ne sono. Sicuramente ci sarà casino a causa di questi forconi. Sarà una giornata un po’ del cazzo». Tutto chiaro.
Tutto chiuso
Lunedì mattina il centro di Torino sembra essere rimasto alla domenica. Negozi chiusi, saracinesche abbassate, la gente passeggia lungo via Po in direzione delle piazza che stanno alle estremità della via, piazza Vittorio Veneto e piazza Castello. Le persone camminano, come sempre, ma con passo spedito, come se non ci fosse motivo di rallentare, visto che quasi tutto è chiuso.
Nei pressi di Palazzo Nuovo, sede dell’Università degli studi di Torino, inizia la mobilitazione tattica: cassonetti dell’immondizia e transenne di fortuna, bloccano gli incroci di corso Regina Margherita e di corso San Maurizio all’altezza di via Rossini. Tutta una fila di autobus e tram, lungo la via Rossini, forma un grande serpente delle strada, un serpente di ferro. Gli autisti degli autobus scendono dai mezzi e, con l’aiuto dei alcuni passeggeri, spostano i cassonetti, mentre gli occhi di chi li ha piazzati in quel modo, osservano inferociti. Non accade nulla di grave, solo alcuni scambi di opinioni. È in altre zone di Torino che sta accadendo qualcosa di più serio, come per esempio in piazza Castello, sede del palazzo della Regione Piemonte, teatro degli scontri tra i forconi piemontesi e la polizia. Quattordici i feriti tra le forze dell’ordine e un arresto tra i manifestanti. La polizia, poi, è stata al centro del già celebre “episodio dei caschi”, in cui i poliziotti si sarebbero levati i caschi come per solidarietà con i protestanti. Interpretazione smentita da una nota della Questura, secondo la quale i poliziotti avrebbero agito così perché “essendo venute meno le esigenze operative che ne avevano imposto l’utilizzo”.
Il day after in piazza Castello
Il giorno dopo, in piazza Castello, restano i segni della protesta, carte e volantini ricoprono il suolo, mentre sotto gli archi del palazzo della Regione due camionette della polizia e i carabinieri stanno lì parcheggiati. Si vedono alcune persone camminare in piazza con la bandiera italiana sulle spalle e si sente la musica emessa dagli amplificatori, che all’improvviso viene interrotta. È all’incirca mezzogiorno. Qualcuno grida al megafono: «Io non sono per nessun partito, sono un cane sciolto e come i cani sciolti, mordo. Il mio impegno, il mio dissenso, lo faccio con la mia musica. Pago le tasse da 22 anni, non voglio rompere il culo ai poliziotti (i poliziotti improvvisamente diventano molto interessati alle parole del manifestante, ndr). Voglio dare una dimostrazione di forza, perché credo nello Stato e nella polizia, ma non nella politica. In questa piazza mancano i politici», dopo una breve pausa ecco che continua «l’Italia è la mia fidanzata, è mia moglie, è mia figlia e la politica me l’ha picchiata, l’ha stuprata. Chiedo che questi politici se ne vadano. L’importante è che noi siamo qui! Via! Via! Dicono che siamo senza proposte ma noi chiediamo che l’Italia esca dal trattato di Lisbona, che ci siano nuove elezioni, che ci sia una nuova legge elettorale!». Parole insomma che professano una apoliticità cui il movimento dei Forconi fa capo sin dalle prime proteste del 2012. Eppure così non sembra proprio, poiché non sembra esserci traccia di questa voluta apoliticità, se si contano gli esponenti di Forza Nuova e di CasaPound che numerosi hanno preso parte alle proteste.
La folla comincia a radunarsi attorno al presidio, con applausi e grida. La protesta continua ancora e così sarà nei prossimi giorni.
Venerdì mattina giorno 13 in piazza Castello, è invece previsto un sit-in di protesta contro i Forconi e i blocchi.
Il clima è certamente più disteso rispetto a lunedì, ma la temperatura, nonostante il freddo torinese, resta comunque calda in molte zone della città. Tornando a casa, mi capita di osservare i cassonetti dell’immondizia riposare sui marciapiedi, come stanchi soldati che si rilassano dopo aver prestato servizio in battaglia. Così è stato dopotutto.
Attilio Occhipinti
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