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Abdou, un marocchino a Torino

Siamo quasi in primavera. Qui a Torino il sole inizia a fare il simpatico, dopo essersi nascosto tra le nuvole per tutto l’inverno, quasi per gioco, dispettoso nei confronti di chi l’ha chiamato invano. Si sente proprio nell’aria che il tempo è cambiato, lo si può leggere sui volti delle persone che in centro passeggiano; molti di loro, con gioia, hanno riposto la sciarpa e i guanti dentro l’armadio.
Strano pensare a come uscivo da casa fino a qualche settimana fa, tutto bardato, con sciarpa e cappello, ma privo dei guanti. Mi danno troppo fastidio quando devo fumare.
Camminare per le strade di Torino è molto piacevole perché è tutto pianeggiante, la fatica si sente poco e poi la zona in cui si trova Palazzo Nuovo, sede dell’università, è davvero graziosa. Tantissime persone, studenti e lavoratori, vanno in bici. Scorrazzano pedalando veloci sui marciapiedi, quasi sbeffeggiando chi cammina a piedi. Un fenomeno, quello dell’andare in bicicletta, lontano dalla quotidianità di un siciliano, abituato invece ad andare sempre su un mezzo con una marmitta dietro. Mi capita spesso di riflettere su questa cosa. «Qui usano sempre le biciclette, studenti e impiegati, grandi e piccoli. Sempre», così mi disse un mio amico qualche tempo fa, agli inizi dell’inverno ormai passato. Ma dove si registra un massiccio uso di un particolare prodotto, di conseguenza si innesta un meccanismo di speculazione sul prodotto stesso, non del tutto legale: «Qua si fottono sempre le bici. C’è un giro di biciclette assurdo e quella che ti rubano, la puoi ritrovare al mercato». Quando mi dissero questo, iniziai a guardarmi attorno mentre camminavo, notando di tanto in tanto i resti di qualche povera bicicletta ancora attaccata al palo della luce. Mancano le ruote o la catena, a volte manca solo il manubrio, altre volte c’è solo il catenaccio. Queste e tante altre riflessioni sugli usi e i costumi piemontesi sono di solito oggetto di discussione tra me e una mia collega sarda. Il fatto di essere entrambi isolani c’ha in qualche modo uniti sin dalle prime lezioni. Con la sigaretta tra le labbra e un bicchiere di caffè in mano, all’uscita dalla lezione, discutiamo tanto delle nostre isole, la Sicilia e la Sardegna.
Circa un paio di settimane prima delle ultime elezioni, dopo una lezione di storia e critica del cinema, andai al mercato di Porta Palazzo proprio con la mia collega. Porta Palazzo è il quartiere dove ha sede uno dei più grandi mercati d’Europa. C’è davvero di tutto, i prezzi sono vantaggiosi e la roba è molto buona, basta avere occhio. Le grida, la confusione modello Bombay, gli odori, il cibo, le bancarelle, tutto mi ricorda la Fiera di Catania. Se mi concentro posso ritornare col pensiero a Catania, immaginando per un attimo che in fondo al mercato ci sia via Etnea e non Corso Regina Margherita.
Dopo aver attraversato il mercato, accettai l’invito della mia collega e salì a casa sua per un caffè. Lei abita in un monolocale, un posto piccolo, ma molto carino, insieme al suo ragazzo. Preso il caffè, andammo a fumare una sigaretta sul pianerottolo davanti alla porta d’ingresso dell’appartamento, per non riempire il monolocale di fumo. E fu allora che conobbi Abdou.
Abdou, un signore marocchino, condomino della mia amica, stava salendo le scale con in mano una busta del panificio: «Ciao, come stai?», la mia amica rispose «Bene bene, tu? Ti presento un mio amico dell’università». Dopo avergli stretto la mano, cominciammo a parlare delle solite cose. Abdou è in Italia da circa sei anni, ha famiglia e da poco ha perso il lavoro. Sua figlia aspetta spesso che la mia amica rincasi, così possono giocare insieme a pallone. Il volto di Abdou è segnato dalla stanchezza, gli occhi sembrano quasi adagiati sulle due grandi occhiaie. Sicuramente dev’essere stata una giornata molto dura. Si appoggiò contro il muro e tirò un sospiro di sollievo. Forse aveva dei dolori alla schiena.
Eravamo a pochi giorni dalle elezioni e Abdou sembrava avere le idee molto chiare: «Deve tornare Berlusconi! Lui è meglio per Italia. Lui ha occhio aperto e occhio chiuso perché lui molto furbo. Ci vuole governo stabile in Paese: cinque, sette, dieci anni Berlusconi». Il mio sguardo incrociò incuriosito quello della mia amica, mentre ero intento a spegnere la sigaretta sul posacenere. Abdou ha superato la quarantina, nel suo paese, il Marocco, si era laureato in giurisprudenza e qui a Torino, dopo aver fatto il manovale, si ritrova senza lavoro e con una famiglia da campare.
«Berlusconi ricco perché imprenditore e allora non ruba soldi di Italia come quello di una volta…come si chiama?! Eh…ecco, Prodi!». Insomma è illogico per Abdou che Berlusconi, essendo ricco, possa trarre profitto dalla politica.
Sinceramente mi spiazzarono le parole di Abdou che, prima di lasciarci, ci disse con convinzione: «Studiate, ma fate studio che serve per mercato…per lavoro, altrimenti difficile è vivere». Salutai Abdou e salutai pure la mia amica, era ora di tornare a casa.
Camminando lungo la Dora, affluente del Po, verso casa mia, pensai alle parole di Abdou. Un immigrato che ora non aveva più un lavoro, con una laurea in giurisprudenza che non vale nulla qui da noi e che con rabbia aveva parlato a me e alla mia amica di mercato del lavoro.
Pensai alla sua laurea e alla sua attuale condizione nel nostro Paese. Pensai a quante ore avrà passato sui libri.
Passarono i giorni, ci furono le elezioni, con i risultati che ormai noi tutti sappiamo recitare a memoria. Chiesi alla mia amica come stesse Abdou e la risposta fu secca e precisa: «L’hanno sfrattato. Aveva le lacrime agli occhi poverino».
Ora Abdou e la sua famiglia sono senza un tetto. Non so proprio che cosa faranno e forse non lo sa neanche Abdou. Mi auguro solo di poter parlare ancora con lui di politica, di lavoro e di futuro, magari nella sua nuova casa.

 

Attilio Occhipinti

 

 

 

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